images/aiedi2.png
3 APRILE 2014 ore 17.00 CONFERENZA: "Il Perdono nelle tre Religioni monoteistiche"
Presso l'Istituto - Maria SS. Bambina - Via Paolo VI, 21 - 00193 - Roma
GALLERY



.
 


CONFERENZA TAVOLA-ROTONDA
 
"Il Perdono nelle tre Religioni monoteistiche"
 
Giovedì 3 aprile 2014 ore 17,00
 
Istituto "Maria SS. Bambina"
 
Via Paolo VI n. 21
 
00193 ROMA

 

COMUNICATO STAMPA

 

 

 

CICLO DI CONFERENZE DELL’AIEDI (ASSOCIAZIONE INTERNAZIONALE PER L’ECUMENISMO ED IL DIALOGO INTERRELIGIOSO) PER L’ANNO 2014 SU TEMI DI ATTUALITÀ:

 

CONFERENZA – TAVOLA ROTONDA SUL PERDONO NELLE TRE RELIGIONI MONOTEISTICHE (ROMA, 3 APRILE 2014)

 

Nell’odierna società, il Dialogo Interreligioso va assumendo un’importanza sempre maggiore per le sfide, che devono essere affrontate ai vari livelli territoriali dai responsabili della società civile  e delle varie Chiese cristiane e Tradizioni religiose nel tentativo di dare soluzioni adeguate ai problemi connessi alla giustizia ed alla pace nel mondo.

 

In tale ottica e nel quadro del suo ciclo annuale di conferenze per il 2014, l’AIEDI (Associazione Internazionale per l’Ecumenismo ed il Dialogo Interreligioso) ha organizzato Giovedì 3 aprile 2014 alle ore 17,00 nell’Aula delle conferenze dell’Istituto “Maria SS. Bambina“ Via Paolo VI n. 21 – 00193 Roma, un convegno - tavola rotonda dal titolo: “Il Perdono nelle tre Religionimonoteistiche”, nell’intento di contribuire a diffondere nel pubblico le cognizioni sul tema importantissimo del perdono, visto nelle diverse prospettive delle tre Religioni abramitiche. E ciò ai fini di fornire elementi che valgano ad imprimere nuovi impulsi per un più efficace dialogo a vari livelli tra rappresentanti della società civile e leader religiosi affinché i loro sforzi congiunti possano convergere verso il perseguimento degli obiettivi della giustizia e della pace, quest’ultima tanto auspicata dalle Autorità di numerosi Paesi. Purtroppo, finora a tale auspicio non è seguita alcuna soluzione negoziale risolutiva. E’ indubbio che la pace sia persistentemente desiderata dalle martoriate popolazioni di varie zone del pianeta (Siria, Iraq, Ucraina, Libia, Palestina, Striscia di Gaza, Israele, Nigeria, Rep. Dem. del Congo, Repubblica Centrafricana, Sud Sudan e così via), dove ogni giorno viene versato tanto sangue innocente, senza alcuna motivazione plausibile.

  

Allo scopo di far conoscere l’AIEDI al pubblico, si riportano, qui di seguito, alcune notizie sulla sua attività e sui suoi obiettivi. 

 

Che cos’è l’AIEDI?

 

È una piccola associazione di promozione sociale, costituita nel mese di maggio 2011, il cui acronimo è ottenuto dall’unione delle lettere iniziali delle parole che compongono la sua denominazione. Pur avendo un numero esiguo di soci l’AIEDI riesce a realizzare la sua attività, che per ora si limita alla sola organizzazione di convegni e conferenze.

 

L’obiettivo principale di questa piccola associazione consiste nel promuovere e sviluppare un processo di convergenza delle diverse posizioni di persone aventi differenti idee, cultura, lingua e religione su temi di attualità relativi ai seguenti settori: sociale, economico, culturale, della bioetica e delle migrazioni.

 

Un tale ed auspicabile processo di convergenza, (sebbene costituisca un obiettivo di difficile conseguimento) nelle sue fasi intermedie, potrebbe rendere possibile il raggiungimento di taluni traguardi ritenuti significativi per la causa della giustizia e della pace nel mondo. Una simile convinzione spinge l’AIEDI a proseguire lungo il cammino del dialogo interreligioso, teso alla ricerca di valori comuni che possano favorire lo sviluppo di sentimenti di amicizia e di fratellanza e lo scambio di valori etici, allo scopo di far scomparire, tra le parti in dialogo, la diffidenza e di creare un clima di collaborazione reciproca.

 

Alla conferenza sul perdono nelle tre religioni monoteistiche hanno partecipato i seguenti relatori:

 

Rav. Prof. Dr. Riccardo Shmuel Di Segni, Rabbino Capo di Roma;

 

il Prof. Giovanni Rizzi,  Professore Ordinario di Antico Testamento nella Facoltà di Teologia della Pontificia Università Urbaniana;

 

l’Imam Yahya Pallavicini, Vice-presidente della CO.RE.IS (Comunità Religiosa Islamica) Italiana ed Imam della Moschea al-Wahid di Milano.

  

Nel tentativo di dare una visione d’insieme all’intera conferenza si sintetizzano, qui di seguito, i contenuti di ciascun intervento dei tre relatori.

 

Per il Rabbino Capo di Roma, Rav Prof. Dr. Riccardo Di Segni il perdono è parte di un processo di ricostruzione di un rapporto alterato tra chi offende e chi è offeso. Il perdono è una riparazione morale dell’identità, è l’acqua che cancella la macchia della colpa e che spegne il fuoco del rancore.

 

Chi ha offeso deve prendere atto che l’azione da lui commessa è scorretta e confessarla come tale a se stesso e discretamente davanti a Dio, impegnandosi a non farla più. E’ ciò che si definisce teshuvà, letteralmente il “ritorno”, recupero di un cammino retto dopo aver deviato. Dopo questi atti chi ha offeso deve riconciliarsi con la persona offesa, chiedendole il perdono. A sua volta l’offeso deve concedergli il perdono; può rifiutarlo per due volte, alla terza deve cedere; se non lo fa chi ha offeso non è più tenuto a chiedere scusa.

 

Il perdono, se è unilaterale e gratuito, nel senso che chi ha offeso non fa nulla per ottenere il perdono, questo spegne il fuoco del rancore ma non toglie la macchia. Come processo morale, il perdono non elimina la necessità della sanzione, che deve servire a riparare il danno procurato, a creare un deterrente nella società e ad aiutare il colpevole a riflettere sul male compiuto.

 

Il perdono non può essere delegato. Il soggetto che chiede perdono deve essere il responsabile, non si chiede perdono per delega.

 

Il perdono è essenziale per la sopravvivenza del mondo. L’errore è parte della natura umana e se dovesse esistere solo giustizia non vi sarebbe sopravvivenza per gli esseri umani. Al perdono sono associati i due principi della giustizia e della misericordia.

 

“La vera pace tra esseri umani singoli o tra collettività, istituzioni, stati, è un processo graduale, che richiede sospensione delle ostilità, riparazione del torto, accordi di buon vicinato, garanzie di non aggressione, stabilimento di comunicazioni e riconoscimento dell’altrui umanità”.

 

Da questo può scaturire la convinzione di aver sbagliato prima, e la volontà di non continuare a sbagliare dopo. E’ la consapevolezza dell’errore procurato che fa breccia nel cuore di chi ha offeso.

 

Ci vuole uno sforzo eroico da entrambe le parti; un antico detto rabbinico insegna: “Chi è il vero eroe? Colui che fa del suo nemico il suo amico“. Ma il nemico qualche sforzo lo deve fare anche lui.

  

Il Prof. Giovanni Rizzi inizia il suo intervento con la citazione della frase: “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” dalla preghiera del Padre nostro insegnata da Gesù.

 

Il relatore sottolinea che la preghiera che Gesù insegna a quanti vogliono seguirlo, benché sia una formula, essa chiede l’impegno di una vita perché tutte le parole diventino realtà.  Nel Vangelo di Matteo Gesù commenta così:” Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Matteo 6, 14-15).

 

Secondo Gesù la preghiera, soprattutto nella sua massima espressione liturgica, non è un affare personale con Dio, ma esige la riconciliazione previa con il fratello, perché possa essere gradita a Dio (vedi Matteo 5, 23-24).

 

Gesù come metafora evidenzia la necessità di arrivare ad un accordo per tempo con l’avversario per evitare che il giudice  - Dio stesso - non imponga la certezza di una pena senza sconti (Matteo, 5,25-26). Se poi l’antica legge del “talione” poteva voler tenere sotto controllo la violenza del diritto alla giustizia vendicativa, circoscrivendone le inevitabili faide interminabili, il perdono insegnato da Gesù si espresse nel paradosso di saper rinunciare eventualmente anche ad un proprio diritto personale inalienabile, come attesta il simbolo del “mantello” nella tradizione biblica (cfr. Matteo 5,40; Es 22, 25-26; Dt 24,10-13). Gesù insiste sulla situazione di debitore insolvibile, che ottiene senza alcun merito il condono di tutto il suo enorme debito, ma che si dimostra spietato verso chi a sua volta gli è debitore per una somma infinitamente inferiore. Questa vicenda suscita lo sdegno di quanti sono a conoscenza della vicenda. Tanto è spontaneo lo sdegno degli uditori di ogni generazione, altrettanto sembra difficile per tali uditori capire di essere a loro volta spietati debitori insolvibili verso Dio, come verso il prossimo.

 

Nel colpo d’occhio di Gesù le vicissitudini e le violenze della vita quotidiana, più o meno palesi, rendono le persone molto attente a calcolare con esattezza e non per difetto i debiti altrui  nei propri confronti, facendo completamente dimenticare come e quanto in ogni generazione si possa essere nella condizione di debitori insolvibili verso Dio e verso il prossimo. E’ un dono liberante che viene dato non senza una condivisione con altri, anche se sempre accompagnata dall’incomprensione dei più, non esclusi quanti ci potrebbero essere compagni di viaggio.

 

L’intervento del Prof. Rizzi si conclude con il testamento spirituale di P. Christian de Chergé, il Priore dei sette Trappisti del Monastero di “Nostra Signora dell’Atlante” a Tibhirine in Algeria, trucidati senza alcuna reale giustificazione.

 

Un testamento che illustra la crisi  della società algerina, che si era talmente aggravata, da lasciare sempre più spazio a gruppi estremisti difficilmente controllabili, la cui voce poteva essere autorevole solo con la violenza delle armi contro chiunque non si fosse sottomesso alle loro condizioni. La gente, che avrebbe voluto condurre una vita normale, sarebbe restata ancora più sola se i trappisti di “Nostra Signora dell’Atlante” invece di restare nel loro Monastero, come in effetti fecero, se ne fossero andati. Per i 7 monaci trappisti, nella notte tra il 26 ed il 27 marzo 1996, fu un discernimento sofferto di una comunità, che con il Suo Vescovo, Mons. Henri Tessier, pervenne alla risoluzione di restare contro la pressione esplicita e non senza minacce degli estremisti operanti nella zona che volevano che i monaci lasciassero il loro Monastero per evitare intralci alla guerriglia locale.

  

L’Imam Yahya Pallavicini esordisce con la Misericordia citando il Corano, VI:133. E il tuo Signore è Colui che è sufficiente a se stesso, detentore della Misericordia.

 

La Misericordia nell’Islam è un attributo di Dio. “Egli si è prescritto la Misericordia”. La Misericordia divina è l’attributo divino che ritorna più frequentemente nel Corano. Ogni persona è responsabile davanti a Dio delle proprie azioni ed il fedele musulmano può trovare la conformità alla Sua volontà con l’osservanza dei cinque pilastri della religione islamica: 1) testimonianza di fede (Shahada);

 

2) preghiere rituali (Salah); 3) elemosina canonica (Zakat); 4) digiuno durante il mese di Ramadan (Sawn o Siyam); 5) pellegrinaggio alla Mecca, almeno una volta nella vita  per quelli che siano in grado, fisicamente ed economicamente di affrontarlo.

 

Agli uomini ed alle donne spetta il compito di realizzare una servitù del Misericordioso che li possa elevare alla stazione di ibad ar-Rahman, i servi del Misericordioso.

 

Il perdono di Dio presuppone il pentimento dell’uomo che si affida alla Misericordia divina per ottenere il perdono.

 

Il perdono fra gli uomini prevede prima o accanto al perdono stesso, la giustizia; mentre il rapporto con Dio è segnato dalla Misericordia.

 

L’Islam come è conosciuto in Occidente sembrerebbe lontano dal concetto del perdono,in realtà questa è una visione che prende in considerazione il livello di decadenza della comunità dei credenti musulmani, sembra che in alcune correnti, prevalga un senso di giustizialismo “fai da te” con una concezione ideologica della giustizia, senz’altro sbagliata perché a questogiustizialismo violento, ideologico e rivoluzionario, si aggiunge mancanza di amore, di carità, di disponibilità generosa verso il prossimo.

 

Accanto a questa corrente rumorosa e dura c’è la maggioranza del popolo dei credenti e dei sapienti musulmani che invece cercadi praticare la giustizia, di arginare l’errore e di riuscire anche a perdonarsi, ad aiutarsi ed amarsi per crescere bene insieme.

 

Di questa ultima parte “sana” si è persa un pò la conoscenza ed i suoi rappresentanti, forse non sono così efficaci nel riuscire a mostrare questa componente di luce, mentre quella che emerge è purtroppo una componente di oscurità.

  

“Nel concludere questo “résumé degli autorevoli interventi dei tre relatori che hanno partecipato alla conferenza sul perdono nelle tre religioni monoteistiche, l’AIEDI ritiene che valga la pena di porre in evidenza almeno uno dei punti più salienti dell’intervento di ciascun relatore, ai fini di un rapido sguardo d’insieme della conferenza di cui trattasi”.

  

Sull’intervento del Rabbino Capo di Roma si ritiene di evidenziare quanto da lui detto e qui di seguito riprodotto,  riguardo al processo graduale di una vera pace: “La vera pace tra gli esseri umani singoli o tra collettività, istituzioni, stati, è un processo graduale, che richiede:

 

sospensione delle ostilità; riparazione del torto; accordi di buon vicinato; garanzie di non aggressione; stabilimento di comunicazioni e riconoscimento dell’altrui umanità”.

  

L’AIEDI al riguardo ritiene che a questa dettagliata ed importantissima elencazione di adempimenti connessi al processo graduale di una vera pace, si dovrebbe aggiungere l’indispensabile provvedimento della “libera circolazione delle persone e delle merci”, da realizzare mediante la stipula e l’applicazione di convenzioni internazionali ad hoc.

 

 

 

Per quanto riguarda l’intervento del relatore Prof. Rizzi si riporta, qui di seguito, uno dei punti più qualificanti del suo discorso, riguardante il pensiero di Gesù sulla preghiera che esige la riconciliazione previa con il fratello per essere gradita a Dio: “Secondo Gesù la preghiera, soprattutto nella sua massima espressione liturgica, non è un affare personale con Dio, ma esige la riconciliazione previa con il fratello, perché possa essere gradita a Dio (vedasi Matteo 5, 23-24)”.

 

 

 

Questo punto del discorso del Prof. Rizzi è stato scelto dall’AIEDI per la sua forte valenza educativa. L’AIEDI rileva che la concreta applicazione del pensiero di Gesù sulla preghiera fa superare le varie difficoltà che si frappongono alla concessione del perdono al prossimo, rendendone più facile il suo esercizio.

 

 

 

Anche per quanto concerne l’Imam Yahya Pallavicini si trascrive, qui di seguito, uno dei punti più rilevanti del suo intervento aggiuntivo, che qui si intende evidenziare, riguardante l’esistenza all’interno della società islamica della componente di luce costituita dalla maggioranza del popolo dei credenti e dei sapienti musulmani: “L’Islam come è conosciuto in Occidente sembrerebbe lontano dal concetto del perdono,in realtà questa è una visione che prende in considerazione il livello di decadenza della comunità dei credenti musulmani; sembra che in alcune correnti, prevalga un senso di giustizialismo “fai da te” con una concezione ideologica della giustizia, senz’altro sbagliata perché a questo giustizialismo violento, ideologico e rivoluzionario, si aggiunge mancanza di amore, di carità, di disponibilità generosa verso il prossimo. Accanto a questa corrente rumorosa e dura c’è la maggioranza del popolo dei credenti e dei sapienti musulmani che, invece, cerca di praticare la giustizia, di arginare l’errore e di riuscire anche a perdonarsi, ad aiutarsi ed amarsi per crescere bene insieme”.

 

 

Da quanto espresso dall’Imam Yahya Pallavicini nel suo intervento, l’AIEDI rileva che la gran parte della popolazione del mondo occidentale conosce poco o non conosce affatto l’esistenza della componente maggioritaria moderata esistente all’interno della società musulmana.

 

Questa circostanza non consente un’adeguata comprensione della realtà del mondo musulmano. Ne discende, purtroppo, che nell’ambito delle relazioni islamo-cristiane, non si sviluppano gli effetti propulsivi che, invece, si produrrebbero se entrambe le parti in dialogo dessero una più incisiva visibilità alla predetta componente maggioritaria moderata.

 

 

Il grande dibattito, lanciato dal Papa Benedetto XVI con la sua “lectio”, tenuta all’Università di Ratisbona, intorno al comandamento dell’amore del prossimo ha coinvolto in maniera sorprendente il mondo islamico, specialmente la sua componente di luce, tanto da indurre 138 leader religiosi e sapienti musulmani a sottoscrivere una lettera aperta, centrata sul duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo, indirizzata allo stesso Pontefice ed ai dirigenti delle comunità cristiane.

 

Questo evento di Papa Benedetto XVI e dei 138 leader e sapienti musulmani costituisce un fulgido esempio di realizzazione di forme costruttive di dialogo interreligioso a cui fare riferimento per porre in essere sempre nuove iniziative nel campo del dialogo interreligioso da parte di coloro che hanno responsabilità decisionali, coinvolgendo soprattutto i giovani sui quali riposano le aspettative di speranza per un futuro migliore.

INDIRIZZO DI SALUTO DEL PRESIDENTE DELL'AIEDI

Desidero salutare e ringraziare gli amici dell'AIEDI presenti stasera in questa sala; desidero anche salutare e presentare i tre relatori che hanno accettato di partecipare a questa conferenza tavola-rotonda. Avvalendomi del loro curriculum vitae, ho ritenuto di estrarre taluni aspetti peculiari della loro formazione culturale e professionale, nonché pubblicazioni ed incarichi da loro ricoperti.

 

In particolare per il Rabbino Capo di Roma, Rav Prof. Dr. Riccardo Shmuel Di

 

Segni ha colpito la mia attenzione la sua partecipazione alla Conferenza Rabbinica Europea come membro dell'Esecutivo e successivamente quale Vice Presidente della Conferenza stessa.

 

Dal 1974 è Docente di Bibbia e Talmud al Collegio Rabbinico Italiano e dal 1999 è Direttore di tale Collegio.

 

Dal suo impegno nel campo medico e rabbinico gli deriva un interesse specifico

 

per la bioetica. Il suo contributo è essenzialmente di promozione della conoscenza della bioetica ebraica presso il pubblico italiano mediante pubblicazioni, lezioni, relazioni, partecipazione a convegni ed a gruppi di lavoro, tavole rotonde organizzate da Ordini professionali, Associazioni laiche e religiose.


Del Prof. Giovanni Rizzi ho evidenziato in primis la sua chiamata come professore di Antico Testamento alla Pontificia Università Urbaniana (PUU) a Roma, dove attualmente è Professore Ordinario di Antico Testamento nella Facoltà di Teologia, con corsi di specializzazioni sul giudaismo post-biblico nella Facoltà di Missiologia. Di notevole importanza è l'intensa collaborazione del ProlRizzi con la Facoltà Teologica di Sicilia "San Giovanni Evangelista" a palermo per la docenza biblica e per la ricerca interdisciplinare su giudaismo,  cristianesimo ed islam attraverso convegni e pubblicazioni.  E' membro dell'Associazione Biblica Italiana (ABI) e del Gruppo di ricerca italiano su Origene e la tradizione Alessandrina (GIROTA). I suoi ambiti di ricerca e le pubblicazioni riguardano lo studio comparato delle antiche versioni bibliche di lingua aramaica, greca, siriana e latina, in rapporlo ai rispettivi originali ebraici e greci.

Infine del relatore islamico, Imam Yahya Pallavicini ho ritenuto degno di menzione il suo contributo alla redazione e presentazione di una proposta di legge in Parlamento sull'albo degli Imam in Italia. Nel 2004 è membro di una delegazione di musulmani italiani, firmatari del Manifesto contro il terrorismo e per la vita. Nel 2005 partecipa a Bruxelles al I Congresso mondiale di Imam e Rabbini per la pace patrocinato dai sovrani di Belgio e Marocco. Nel 2006 partecipa a Vienna al Congresso degli Imam d'Europa, promosso dalla Commissione Europea e si reca anche in Israele come componente musulmano del progetto interreligioso organizzato dalla American Jewish Committee.

All'inizio del mese di Ramadan è stato invitato in udienza dal Papa Benedetto XVI nell'incontro a Castel Gandolfo riservato ad esponenti delle Comunità musulmane in Italia ed ai diplomatici dei Paesi Islamici accreditati presso la Santa Sede.

Dopo la presentazione dei relatori ritengo opportuno illustrare brevemente gli obiettivi dell'AIEDI, ai quali tengo molto, cominciando dal suo acronimo ottenuto dall'unione delle lettere iniziali della sua denominazione:

"Associazione Internazionale per I'Ecumenismo ed il Dialogo Interreligioso".

L'AIEDI, pur avendo un numero esiguo di soci riesce a realizzare bene la sua attività che per ora si limita all'organizzazione di conferenze e convegni.

L'obiettivo principale di questa piccola Associazione di promozione sociale consiste nel promuovere e sviluppare un processo di convergenza tra le diverse posizioni di persone aventi idee, cultura, lingua e credo religioso differenti, su temi di attualità concernenti isettori: sociale, economico e culturale, incluse le problematiche della bioetica e quelle sempre attuali delle migrazioni.  Una tale ed auspicabile convergenza, anche se di difficile realizzazione, rende possibile, nei suoi stadi intermedi, il conseguimento di risultati abbastanza importanti per la causa della pace e della giustizia nel mondo.

Una simile convinzione spinge l'AIEDI a perseverare nel cammino intrapreso,  che mira a favorire lo sviluppo di sentimenti di amicizia, di fratellanza, di scambio di valori etici e contribuisce a far scomparire la diffidenza ed a creare un clima di collaborazione reciproca.

Il tema che verrà affrontato dai relatori questa sera offre l'opportunità di conoscere il pensiero delle tre Religioni monoteistiche sul tema del perdono, che attraverso un dialogo sincero tra i rispettivi rappresentanti delle tre Religioni abramitiche, unitamente alla loro conoscenza approfondita della realtà obiettiva in cui è immersa la problematica in esame, può contribuire a costruire ponti per un futuro migliore dei rispettivi popoli

Conferenza sul perdono Libano




Intervento del Relatore cattolico Prof. Giovanni Rizzi

Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori

Questa frase resta tra le più famigliari nella memoria cristiana della nostra generazione, forse ancora nella nostra cultura, non fosse altro perché legata a una formula imparata a memoria fin da bambini, lungo un arco di generazioni, che ha superato i 2000 anni. Non fa parte di per sé della preghiera di Gesù, quella che caratterizza il suo rapporto personale con il Padre-Che-è-nei-Cieli, ma appartiene alla preghiera che Gesù ha voluto consegnare ai suoi discepoli, perché diventasse la loro preghiera caratteristica.

Nelle tradizioni evangeliche la preghiera del Padre nostro è insegnata in 2 forme leggermente diverse tra loro e in 2 differenti circostanze. Nel Vangelo di Luca, Gesù consegna in una forma leggermente più breve la preghiera del Padre nostro ai discepoli, che gli avevano chiesto una preghiera che li distinguesse da quella praticata in altri gruppi spiritualmente impegnati di quel tempo nell’antica terra dei padri (Lc 11,2-4). Forse nella domanda dei discepoli di Gesù c’era un certo desiderio di trovare anche nella preghiera un tratto caratteristico di un’identità specifica, rispetto all’ambiente circostante. Il risultato non è stato tuttavia quello di favorire un settarismo religioso. La preghiera, che Gesù insegna a quanti vogliono seguirlo, è una formula, ma chiede l’impegno di una vita perché tutte le parole diventino realtà.

Nel Vangelo di Matteo (6,9-13), Gesù la formula nel contesto più ampio del “discorso della montagna”, premettendo in questo caso tre inviti: a non fare dell’esibizionismo “spirituale” (Mt 6,5-6; come accade spesso in ogni tempo), a non sprecare parole davanti a Dio (come può fare chi non ne ha una reale esperienza e cerca più che altro se stesso) e a ricordare che il Padre-Che-è-nei-Cieli “sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate” (Mt 6,7-8).

Della preghiera del Padre nostro, secondo la formula riportata dal vangelo di Matteo, Gesù stesso sottolinea alla fine il senso della frase da cui siamo partiti: “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6,12), comune in parte anche nella forma, oltre che certamente nella sostanza, trasmessa dal Vangelo di Luca: “e perdona a noi i nostri peccati, anche noi perdoniamo a ogni nostro debitore” (Lc 11,4). Infatti, Gesù, secondo il Vangelo di Matteo, così commenta: “Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6,14-15).

“Rimettere i debiti” diventa sinonimo di “perdonare le colpe”, benché siano espressioni in greco, come in italiano abbastanza diverse. Ma il tema ritorna spesso nello stesso Vangelo di Matteo, anche con altre espressioni e immagini. Secondo Gesù la preghiera, soprattutto nella sua massima espressione liturgica, non è un affare personale con Dio, ma esige la riconciliazione previa con il fratello (cioè almeno familiare, congiunto, concittadino, connazionale, correligionario e anche confratello nella vita religiosa!), perché possa essere gradita a Dio (cfr. Mt 5,23-24), esplicitando quanto anche già il Siracide chiedeva (cfr. Sir 28,1-7). Sempre nel medesimo contesto del “discorso della montagna”, Gesù come metafora evidenzia la necessità di patteggiare, di arrivare a un accordo per tempo con l’avversario, per evitare che il giudice – Dio stesso – non imponga la certezza di una pena senza sconti (cfr. Mt 5,25-26). Se poi l’antica legge del “talione” poteva volere tenere sotto controllo la violenza del diritto alla giustizia vendicativa, circoscrivendone le inevitabili faide interminabili, il perdono insegnato da Gesù si espresse nel paradosso di saper rinunciare eventualmente anche un proprio diritto personale inalienabile, come attesta il simbolo del “mantello” nella tradizione biblica (cfr. Mt 5,40; Es 22,25-26; Dt 24,10-13).

Il linguaggio utilizzato da Gesù: “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” ha sempre presentato aspetti molto impegnativi per ogni generazione. Nella traduzione greca del Vangelo di Matteo “rimettere” o “condonare un debito” rimanda inequivocabilmente a un’esperienza ben nota della vita quotidiana di ogni tempo: l’essere nella situazione di “debitore” insolvibile. Gesù insiste particolarmente su questa immagine, nella parabola del debitore insolvibile, ma spietato quando si ritiene creditore verso qualche altro (cfr. Mt 18,23-35). La vicenda del debitore insolvibile, che ottiene senza alcun merito il condono di tutto il suo enorme debito, ma che si dimostra spietato verso chi a sua volta gli è debitore per una somma infinitamente inferiore, suscita lo sdegno di quanti sono a conoscenza dell’accaduto. Lo sdegno, nella parabola, non è rivolto verso il padrone che ha condonato il debito enorme, ma verso chi, beneficiario di un simile condono, non ha avuto pietà di chi gli avrebbe dovuto restituire molto di meno. Tanto è spontaneo lo sdegno degli uditori di ogni generazione, altrettanto sembra difficile per gli uditori di ogni generazione capire di essere a loro volta spietati debitori insolvibili verso Dio, come verso il prossimo.

Nel colpo d’occhio di Gesù, la vita quotidiana, con le sue vicissitudini e le sue violenze più o meno palesi, rende le persone molto attente a calcolare con esattezza e non certamente per difetto i debiti altrui nei propri confronti, facendo completamente dimenticare come e quanto in ogni generazione si possa essere nella condizione di debitori insolvibili verso Dio e verso i propri simili.

Mai come oggi ci sarebbe necessità di chiedere scusa e concedere perdono. Nella vita famigliare: nel rapporto tra i coniugi, tra genitori e figli. Nella vita sociale: sul lavoro, nei rapporti economici; a livello individuale e collettivo, di popoli e di continenti. Nella vita politica, locale, nazionale e internazionale. Tuttavia, la maturità umana e spirituale necessaria per capire di essere nella condizione di debitori insolvibili verso Dio e verso il prossimo (inteso nel senso più ampio del termine) è forse anche uno dei traguardi più inaccessibili del nostro tempo. La giustizia evocata diventa spesso giustizialismo inappellabile. La “beata coscienza” di un’incoscienza sulla realtà scava a sua volta solchi abissali tra persone, gruppi sociali, gruppi etnici e religiosi. In questo clima prende sempre più vigore la paura per la propria vita, l’opposizione ragionata e motivata sempre più rigida …

La presa di coscienza di essere debitori insolvibili verso Dio e verso il prossimo non è il segno di immaturità psicologica di chi è ancora afflitto da un complesso di colpa, o dell’“arretratezza culturale e morale di chi pensa ancora in termini di peccato”, o della stupidità di chi “crede ancora nelle favole su Dio, sul giudizio finale, sul castigo e sul premio”.     

L’intuizione di essere debitori insolvibili verso Dio e verso il prossimo è certamente come l’altra faccia della luna, che c’è anche se non si vede. È un dono liberante, che viene dato non senza la collaborazione e lo sforzo di una vita, non senza una condivisione con altri, anche se sempre accompagnata dall’incomprensione dei più, non esclusi quanti ci potrebbero essere compagni di viaggio.

 

Testamento spirituale del P. Christian de Chergé

A questo punto, per dare volto concreto e “parola scolpita sulla roccia”, come direbbe Giobbe (cfr. Gb 19,24), a una testimonianza significativa del nostro tempo, vorrei far riascoltare il “Testamento spirituale” di p. Christian de Chergé, il priore dei sette trappisti del monastero di “Nostra Signora dell’Atlante” a Tibhirine in Algeria, trucidati senza alcuna reale giustificazione.

Il priore dei trappisti di Tibhirine scrisse il suo testamento spirituale qualche tempo prima di morire, intuendo lucidamente che la situazione ormai avrebbe potuto precipitare da un momento all’altro. La crisi della società algerina si era talmente aggravata, da lasciare sempre più spazio a gruppi estremisti difficilmente controllabili, la cui voce poteva essere autorevole solo con la violenza delle armi contro chiunque non si fosse sottomesso alle loro condizioni. Una guerriglia spietata, che poteva trarre linfa dalla paura di quanti non ne condividevano né gli ideali, né i mezzi di azione, così da dover ritenere inevitabile il ricorso a una violenza uguale e contraria. La povera gente, quella che non voleva né poteva difendersi allo stesso modo, restava in mezzo ai contendenti. La gente, che avrebbe voluto condurre una vita normale, sarebbe restata ancora più sola se i trappisti di “Nostra Signora dell’Atlante” se ne fossero andati, prima che fosse stato troppo tardi.

È in questo discernimento storico, drammatico quanto decisivo, che matura la risposta di un’intera comunità di monaci, consapevoli dei rischi e in piena libertà interiore ed esteriore. Che lasciassero il monastero, per evitare intralci alla guerriglia locale, era la pressione esplicita e non senza minacce degli estremisti operanti nella zona. Lasciare per tempo il monastero, prima che fosse troppo tardi, era l’invito esplicito, che nelle discussioni del Capitolo Generale dei Trappisti in quegli ultimi tempi era stato rivolto al priore di “Nostra Signora dell’Atlante”. È anche giusto che un Ordine religioso si preoccupi della vita dei confratelli, che preferisca poterli valorizzare in altri contesti, piuttosto che “perderli definitivamente”, quando c’è ancora una via d’uscita. Nelle discussioni al Capitolo Generale, ci può anche scappare la convinzione che un Ordine religioso ha bisogno di persone e non di morti, seppure martiri. I famigliari dei monaci, quelli che ancora ne avevano, potevano provare sentimenti analoghi … E questo si può ben capire.

Eppure, nella comunità di “Nostra Signore dell’Atlante” si fece strada quel “se vuoi” di Gesù, rivolto al giovane ricco e che quasi 2000 anni prima aveva ottenuto un rifiuto (cfr. Mt 19,21-22). “Un’acqua viva mormora dentro di me”, diceva invece Ignazio di Antiochia, scrivendo ai cristiani di Roma durante il viaggio che come prigioniero l’avrebbe portato a morire a Roma (intorno al 110 d.C.). Non fu neppure per i 7 monaci trappisti, nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996, una passeggiata trionfale delle certezze granitiche, sognate e ostentate da uomini incapaci di vivere concretamente quanto espresso a parole. Fu un discernimento sofferto di una comunità, che con il suo vescovo, Mons. Henri Tessier, pervenne alla risoluzione di restare, obbedendo così a una chiamata e non a una decisione coraggiosa, o dissennata, semplicemente umana. Vi furono tentennamenti concreti, come quando in occasione di una prima irruzione notturna dei guerriglieri estremisti, qualcuno rimase nascosto senza trovare il coraggio di andare e vedere costa stesse succedendo agli altri confratelli minacciati direttamente dagli estremisti. Ci fu però il coraggio e l’umiltà di riconoscerlo dopo davanti al Priore: quel benedetto coraggio di chiedere scusa, per qualcosa che ormai potrebbe sembrare impossibile!

Ormai una comunità aveva fatto un cammino e tutto era per così dire pronto. P. Christian de Chergé affidò al suo “Testamento spirituale” l’esito di quell’itinerario non solo personale, ma di tutta la sua comunità. Il “Testamento” fuaperto la domenica di Pentecoste 26 maggio 1996.

Quando si profila un ad-Dio. Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese. Che essi accettassero che l’unico Padrone di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale. Che pregassero per me: come potrei essere trovato degno di tale offerta? Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato.

La mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche meno. In ogni caso, non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimé, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca. Venuto il momento, vorrei avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito.

Non potrei auspicare una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che un popolo che amo sia indistintamente accusato del mio assassinio. Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che, forse, chiameranno la "grazia del martirio", il doverla a un algerino chiunque egli sia, soprattutto se dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’islam. So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare gli algerini globalmente presi. So anche le caricature dell’islam che un certo islamismo incoraggia. È troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti.

L’Algeria e l’islam, per me, sono un’altra cosa; sono un corpo e un’anima. L’ho proclamato abbastanza, credo, in base a quanto ne ho concretamente ricevuto, ritrovandovi così spesso il filo conduttore del Vangelo imparato sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima Chiesa, proprio in Algeria e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani.

Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista: "Dica adesso quel che ne pensa!". Ma costoro devono sapere che sarà finalmente liberata la mia più lancinante curiosità. Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze.

Di questa vita perduta, totalmente mia, e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per quella gioia, attraverso e nonostante tutto. In questo grazie, in cui tutto è detto, ormai, della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e ai loro, centuplo accordato come promesso!

E anche te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo ad-Dio profilatosi con te. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen! Insc’Allah

Algeri, 1º dicembre 1993

Tibhirine, 1º gennaio 1994

+Christian





Misericordia nell'Islam dell'Imam Yahya Pallavicini



 Yahya Sergio Yahe Pallavicini

 

Bismillah ar-Rahman ar-Rahim, nel nome di Allah, il Misericordioso nella trascendenza e nell'immanenza.

La formula che apre la mia relazione è la stessa con la quale cominciano le sure del Corano, i capitoli della Rivelazione divina, che sono stati trasmessi nella forma di Libro, di Testo sacro, per la Recitazione rituale dei musulmani.

Così, accanto al nome di Dio Allah, viene spesso citato nel Sacro Corano il Suo attributo ar-Rahman, il Misericordioso. Ed i musulmani, proprio nel ricordo e nella fede in Allah come il Misericordioso, Lo lodano per ricevere l’ispirazione e la protezione nei loro atti quotidiani.

Ar-Rahman, il Misericordioso, la manifestazione della Misericordia di Allah, rappresenta l’attributo di Dio che i musulmani invocano costantemente sia durante le preghiere rituali che al mattino, al momento di alzarsi e iniziare la giornata, prima dei vari pasti come segno di gratitudine o nei saluti tradizionali tra parenti e altri membri della comunità islamica.

La vita e la morte, il giorno e la notte, la solitudine e la compagnia, la povertà e la ricchezza, il pentimento e il perdono sono segni della Misericordia di Allah che non cessano di manifestarsi e rinnovarsi in ogni istante e che richiamano ogni credente musulmano alla ricerca della Conoscenza del Misericordioso, ar-Rahman.

 

Dì: “A chi appartiene quel che è nei cieli e sulla terra?” Rispondi: “A Dio! Egli si è prescritto la misericordia” (Corano, VI: 12).

E quando vengono da te coloro che credono nei Nostri Segni dì loro: “La pace sia con voi! Iddio si è prescritto la misericordia” (Corano, VI: 54).

E il tuo Signore è Colui che è Sufficiente a Se Stesso, detentore della misericordia. (Corano, VI: 133).

La Misericordia nell’Islam è un attributo di Dio. “Egli si è prescritto la Misericordia”. La Misericordia è una caratteristica divina che non si limita alla manifestazione della creazione, alla gestione delle creature o al rapporto delle creature con il loro Signore, ma procede anche in tutti questi campi come espressione di una qualità che appartiene a Dio. Solo Lui conosce i modi e i tempi e i soggetti che sono i destinatari della Sua Misericordia. Solo “a Lui appartiene tutto ciò che è nei cieli e sulla terra” pur essendo al tempo stesso “Colui che è Indipendente dai mondi”. L’elargizione della Misericordia di Allah non segue le logiche apparenti di causa ed effetto umano, né è condizionata dalle aspettative dei credenti nei loro doveri quotidiani, né dalla compassione che alcuni di essi possono suscitare in alcune situazioni dell’esistenza. La Misericordia di Dio non è infatti assente quando la persona sembra attraversare momenti di difficoltà nel mondo.

La qualità di Dio, ar-Rahman, è una qualità connaturata al mondo, ma ha tuttavia origine prima della sua stessa Creazione; è una qualità presente nella vita pur prescindendo dalle caratteristiche dell’esistenza individuale; è una prescrizione che Allah ha fatto a Se stesso e che non può essere associata o ridotta al sentimento umano.

Agli uomini e alle donne spetta piuttosto il compito di realizzare una servitù del Misericordioso che li possa elevare alla stazione di ‘ibad ar-Rahman, i servi del Misericordioso. È proprio questa pia e virtuosa servitù che apre al credente il beneficio partecipativo e conoscitivo di una costante e cosciente relazione con la Misericordia divina. Il fedele musulmano può infatti limitarsi ad avere nei confronti del Misericordioso un rapporto passivo, laddove Lo invoca nella speranza di un perdono o nella ricerca di un aiuto personale, oppure può praticare una via di disciplina spirituale che disponga la sua vita e la sua persona al servizio di un irradiamento e di una testimonianza attiva della Misericordia divina. Così, uomini virtuosi e donne pie diventano nell’islam gli interpreti della Misericordia divina poiché hanno purificato la “propria” soggettività e oggettività personale elevandosi alla Soggettività e all’Oggettività di Allah.

Dì: “Invocatelo come Allah o invocatelo come ar-Rahman, il Misericordioso, comunque lo invochiate, a Lui appartengono i nomi più belli” (Corano, XVII: 110).

È proprio la dimenticanza della Verità presente nel Soggetto e nell’Oggetto Divino a chiudere le persone nella prigione dell’ignoranza, inducendole a pensare e ad agire senza fede e con orgoglio, nella pretesa di possedere o di potersi attribuire la proprietà individuale dei Nomi più belli, fino a invertire o confondere il rapporto naturale e unico tra Soggetto e Oggetto, tra Trascendente e Immanente, tra Dio e la Propria Misericordia.

I miscredenti e gli ipocriti usano misericordia nei confronti di se stessi, ergendosi a giudici delle proprie azioni e dei propri pensieri, misconoscendo il Principio dell’Unità e separando la Misericordia divina dalla Sua natura spirituale. Essi non credono che in se stessi e nell’apparenza delle loro azioni, alle quali conferiscono, tramite la creazione di idoli materiali o ideali, un potere narcisistico che tende ad alimentare l’autostima e l’adorazione del proprio ego.

Posseggono essi i tesori della Misericordia del tuo Signore, il Possente, il Munifico? (Corano, XXXVIII: 9).

Il richiamo della Parola di Dio è chiaro. L’ignoranza, l’orgoglio, l’inversione, la separazione, l’idolatria e l’individualismo sono le caratteristiche di coloro che scelgono di non credere all’evidenza spirituale e materiale, dei “tesori della Misericordia”. Essi rinnegano la qualità e la quantità dei miracoli del Creatore per ricreare artificialmente una indipendenza dalla Onnipotenza del proprio Signore e disobbedire alle leggi della tradizione sacra.

Ma provvidenzialmente alcuni “tornano a Dio e si rivolgono a Lui sinceramente pentiti” e diventano l’oggetto del perdono del Misericordioso. Così il Sacro Corano descrive la mediazione degli spiriti celesti: Gli angeli che trasportano il Trono e gli angeli che lo circondano, celebrano le lodi del Signore e credono in Lui e chiedono perdono per quelli che credono: “Signore nostro! Tu comprendi ampiamente ogni cosa con la Tua Misericordia e con la Tua Scienza! Perdona dunque a coloro che si sono rivolti a Te e hanno seguito la Tua via e preservali dal tormentoso castigo dell’inferno!” (Corano, XL: 7).

La mediazione degli angeli si accompagna secondo la tradizione islamica alla provvidenziale discesa sulla terra di inviati e messaggeri divini che rappresentano l’espressione straordinaria della Misericordia divina nei confronti delle minoranze pie e del resto dell’umanità decaduta al livello di popolo errante. La Misericordia di Allah supera le valutazioni umane e può corrispondere, in qualche misura, alla forza della fede dei credenti.

 

Di questa forza ci è modello il profeta Giacobbe che, dopo aver allevato ed educato suo figlio Giuseppe, deve assistere alla messa in scena dei fratelli di quest’ultimo. Costoro vorrebbero far credere al padre che Giuseppe sia stato divorato dai lupi. Sono gli stessi fratelli che, in un successivo periodo di grande carestia, ricevono e gli rivolgono la strana richiesta di affidamento anche del figlio minore: “Come ve lo affiderò?”, disse Giacobbe. “Solo come vi affidai l’altro suo fratello da prima posso ora affidarvi questo. Ma Allah è il miglior custode, Allah è il più Misericordioso dei misericordiosi!” (Corano, XII: 64). Assistiamo qui all’incommensurabilità della Misericordia divina che tramite l’attenzione, la sapienza, il sacrificio, la sofferenza, la pazienza di Giacobbe guida al pentimento dei figli e dei fratelli invidiosi e al miracolo del perdono divino. Come non riconoscere infatti la relazione di Giacobbe con l’attenzione, la sapienza, il sacrificio, la sofferenza e la pazienza di suo figlio Giuseppe? Non c’è altro modo con il quale un padre può affidare a qualcuno suo figlio, se non confidando nella Misericordia divina, che è miglior custode di ogni paternità illuminata. E come non riconoscere in questa pietà la mano protettrice del “ più Misericordioso dei misericordiosi”?

 

Una reazione simile si rinnova in occasione di un’annunciazione, quella che lo spirito fedele, l’angelo Jibril, fa a Maryam che reagisce dicendo: “Io mi rifugio nel Misericordioso!”. Ma è proprio il Misericordioso che ha inviato l’angelo affinché possa preparare la vergine alla custodia e alla nascita di Gesù, lo Spirito di Dio e l’annuncio dell’Ora. Disse: “Così sarà. Perché il tuo Signore ha detto: ‘Cosa facile è questa per Me’ e Noi, per certo faremo di Lui un Segno per gli uomini, un atto di Misericordia Nostra: questa è cosa decretata!” (Corano, XIX: 21). Gesù è un atto di Misericordia che appartiene a Dio. È un atto del Misericordioso. È un atto di Colui che si è prescritto la Misericordia e che ora prescrive a Se stesso il decreto di un Segno per gli uomini. È un Segno del Misericordioso.

 

E, in conclusione del ciclo della profezia, arriviamo a Muhammad, su di lui la Pace e la benedizione di Allah. E ti abbiamo inviato come una Misericordia per i mondi. (Corano, XXI: 107).

E tu dì: “Signore! Perdona e abbi misericordia. Tu sei il migliore dei misericordiosi” (Corano, XXIII: 118).

Queste citazioni della Parola di Dio trascritta nel Sacro Corano vengono commentate dai sapienti per ricordare la funzione mediatrice che il Profeta avrà alla fine dei tempi nei confronti dei mondi e della comunità dei fedeli che avranno saputo seguire islamicamente l’autentica e integrale accettazione della Sola Volontà di Dio nella realizzazione di una Pace interiore ed esteriore. Per questi fedeli egli sarà mediatore di Misericordia nel giorno del giudizio.

 

Ed è precisamente in attesa di questo giudizio, di questo ultimo giorno, nel quale tutte le creature saranno chiamate a rendere conto delle proprie azioni che il rapporto con la Misericordia assume un valore definitivo. Senza la promessa di questa sentenza finale, di questa bilancia di giustizia tra la coerenza e l’indifferenza, tra l’osservanza e la disobbedienza, tra il bene e il male compiuto dagli esseri umani durante la vita sulla terra, la Misericordia avrebbe un significato forse diverso.

La fiducia o la speranza nella Sua Misericordia alimentano per i credenti le possibilità di accedere nella vita dell’altro mondo alla presenza dell’eternità della grazia. Diversamente, la pena di una dannazione che confina l’anima all’assenza di Luce e al tormento del fuoco dell’inferno è la destinazione di coloro che non hanno meritato l’incontro con il Misericordioso.

La mancanza di questa prospettiva verso l’Aldilà, verso la dimensione metafisica della realtà, riduce miseramente il rapporto di alcuni credenti con la Misericordia divina a banali valutazioni psicologiche o moralistiche, dove si pretende conferire una presunta oggettività alle proprie azioni, definendole buone o cattive secondo il proprio parametro di interpretazione individuale o soggettiva. Questa riduzione provoca nel credente una alternanza di stati emotivi tra il ricordo dell’idea di Dio e la dimenticanza dell’esistenza di Dio. Il Corano recita a proposito: E quando facciamo gustare agli uomini un segno della Nostra Misericordia dopo un travaglio che li aveva colpiti, ecco che essi tramano insidie contro i Nostri Segni. (Corano, X: 21).

L’uomo contemporaneo sembra infatti talmente lontano dalla sensibilità per il gusto spirituale che si rammenta di Dio solamente quando è sottoposto a qualche travaglio e le sue umane risorse mettono in l’evidenza i loro limiti fisici. Allora, scatta l’antico ricordo della tradizione familiare, la memoria degli anziani che si rivolgevano a Dio in cerca di soccorso e si riaccosta al rito con l’imbarazzo di chi ritorna alle superstizioni di coloro che ancora credono in una dimensione inferiore, intermedia e superiore della realtà, di coloro che sono rimasti fedeli ad una prospettiva simbolica del mondo esteriore e che intendono la vita come un mistero da scoprire e non come un tempo da passare profanamente. In alcuni di questi casi, la Misericordia divina riorienta le creature guidandoli ad una nuova conversione spirituale e integrandoli nel sostegno provvidenziale di una comunità di credenti. Ma i credenti e le credenti sono l’un l’altro amici e fratelli, invitano ad atti lodevoli e gli atti biasimevoli condannano, compiono la preghiera e pagano la decima e obbediscono a Dio e al Suo Messaggero: di questi Allah avrà Misericordia, Egli è Potente, Sapiente. (Corano, IX: 71). Grazie all’empatia fraterna tra i credenti e le credenti di ogni comunità religiosa, l’uomo ritrova la capacità di discernere tra bene e male e di consacrare la sua permanenza nel mondo con opere di adorazione e di gratitudine, carità, solidarietà, amore.

L’amore tra le creature è infatti uno dei segni dell’irradiamento dell’Amore di Allah per le Sue creature, e così la fratellanza spirituale tra credenti, la collaborazione tra persone riconoscenti, la sensibile vicinanza e l’attenzione sincera nei confronti dei poveri e dei bisognosi, tutte insieme sono occasioni di praticare alcuni aspetti concreti della Misericordia del Misericordioso nei confronti dei Suoi amati servi. Tra questi rapporti, l’amore coniugale che unisce un uomo e una donna assume un valore simbolico di particolare profondità che, oltre a rappresentare secondo un detto del Profeta “metà dell’islam”, viene descritta nel Corano come il luogo della Misericordia. E uno dei Suoi Segni è che Egli ha creato da voi stessi delle spose per voi, affinché riposiate con loro, e ha posto tra di voi amore e Misericordia. E certo in questo vi è un Segno per gente che sa meditare. (Corano, XXX: 21).

 

In questi tempi di grande confusione e di strumentalizzazione della religione e dell’islam è più che mai opportuno che i credenti tornino insieme a meditare, a meditare sui Segni di Dio e a pregare di ritrovare una corrispondenza con l’asse celeste e un inquadramento veramente misericordioso che ci preservi dalla collera di Dio e ci faccia interpretare con onestà, dignità e umiltà la funzione di eredi dei Profeti e di nobili operatori di Pace. Viviamo infatti la fine del ciclo cosmico, alla conclusione di un periodo breve, chiamato “momento della Misericordia” che anticipa di poco la chiamata escatologica.

Colui che ha creato i cieli e la terra e quel che c’è fra di essi in sei giorni, poi si è elevato sul Trono: il Misericordioso. Interroga Colui che è il Ben Informato! – Quando si dice loro: “Prosternatevi al Misericordioso!” Essi rispondono: “E che cosa è il Misericordioso? Dovremo noi prosternarci davanti a ciò che tu ordini?” e questo accresce ancora la loro avversione. - Sia benedetto Colui che ha posto in cielo delle stelle e vi ha posto un luminare e una luna brillante. – E Lui è Colui che ha determinato il succedersi della notte e del giorno, segno per chi vuole ricordare, per chi vuole essere grato. – I servi del Misericordioso sono coloro che camminano sulla terra modestamente, e quando gli ignoranti rivolgono loro la parola rispondono: “Pace!” (Corano, XXV: 59-63).

 

Imam Yahya Pallavicini

intervento aggiuntivoYahya

Per una migliore comprensione ed un approfondimento del perdono di Dio (che presuppone il pentimento dell'uomo che si affida alla Misericordia divina per ottenere il perdono) ed il perdono fra gli uomini (che prevede la giustizia) si veda anche il seguente articolo dell'Imam yahya pallavicini,

' Vice Presidente della CO.RE.IS. Italiana:

 

La religione islamica è fondata sulla sottomissione alla Volontà di Dio (che è anche il significato della parola 'Islam'), sia interiormente, come atto di fede, sia esteriormente attraverso l'osservanza dei comandi divini e porta alla vera pace (salam) abbracciando tutti gli aspetti della vita del fedele.

Lavita del musulmano consiste nello sforzo costante di conformarsi sempre piu a tale Volontà Divina, in una dinamica continua di allontanamento e riavvicinamento, di dimenticanza e di ricordo, di disobbedienza, di pentimento e di richiesta di perdono. La disobbe dienza pone una distanza tra noi e Dio e porta l'uomo ad allontanarsi dalla retta via. È una situazione di disordine, un infrangere l'ordine che Allah ha posto per le sue creatute e nelle sue creature, una mancanzaverso Dio e un torto verso se stessi.

La Misericordia divina è l'attributo divino che ritorna più frequentemente nel Corano, tanto che ognt sura (versetto) comincia con L'invocazione a Dio, al-Rahman al-Rahim,il Misericordioso nella trascendenza, il Misericordioso nell'immanenza. Nella tradizione islamica si insegna che lo stesso rigore di Allah nasce in realtà dalla Sua misericordia, che ne è la causa ultima e l'origine. Anche il rigore divino dunque, nonostante le apparenze, non è che un velo della Sua misericordia, una modalità con cui Allah può operare per il bene dell'uomo.

Ogni persona è responsabile davanti a Dio delle proprie azioni e il fedele musulmano può trovare la conformità alla Sua Volontà con l'osservanzadei 'cinque pilastri' della religione islamica, ossia I principi fondanti di tale dottrina: testimonianza di fede (shahada); preghiere rituali (satah) da svolgersi regolarmente al mattino, amezzogiorno, a metà pomeriggio, al tramonto e un'ora e mezza dopo il tramonto; elemosina canonica (zakat); digiuno durante il mese di Ramadan (sawn o siyam)  che si effettua il nono mese dell'anno, secondo il calendario musulmano, e ha dwata di 29 o 30 giorni con lo scopo di aprire il cuore e l'anima del fedele al perdono divino; il pellegrinaggio alla Mecca, almeno una volta nella vita per quelli che siano in grado, fisicamente ed economicamente,

di affrontarlo. In questo pellegrinaggio, se i fedeli invocano Dio, Egli risponde. Se essi chiedono perdono, questo sarà dato. In particolare, lo stare in piedi sul monte Arafat con una preghiera silenziosa è già considerata come richiesta di perdono.

Ciascuno chiede perdono a Dio per i propri peccati, che hanno spesso anche una dimensione sociale, di relazione tra gli uomini. In questo caso, un reale pentimento implica anche l'obbligo di riparare il male fatto, per ristabilire l'ordine perduto. Nei rapporti tra gli uomini si pone dunque l'accento sul tema della giustizia, proponendo la legge dell'equità. La legge islamica (sharia)  sviluppa in dettaglio gli obblighi di compensazione per i danni subiti, ma il Corano stesso incoraggia tuttavia la misericordia tra gli uomini. Mentre nellarelazione tra esseri umani e Dio I'enfasi è sulla misericordia, in quella tra esseri umani si pone come principale il tema della giustizia, anche se il Corano, nel richiedere quest'ultima, invita colui che è stato offeso al perdono verso il suo simile.

Abbiamo rivolto alcune domande sul tema del perdono all'Imam Yahya Pallavicini, vice presidente della coREIS (comunità Religiosa Islamica) Italiana.  Ci può spiegare cosa è il perdono nella religione islamica?  La richiesta di perdono è uno degli atti più comuni che il fedele musulmano è invitato a praticare. Il pentimento, innanzitutto, e la richiesta di perdono che ne consegue, viene rivolta all'unico che può perdonare, cioè Dio stesso. Tre sono i termini con cui il sacro Corano si riferisce ad Allah come Colui che perdona: il primo è al-Rahmare, il Misericordioso, un attributo di Dio con cui Egli ha ascritto a se stesso la Misericordia e riesce ad irradiarla nel mondo tra le creature come ispirazione;  il secondo è al-Ghaffar e al-Ghffir, due termini che troviamo spesso nel Corano e che significano "Colui che Perdona", apparentemente sinonimi ma aventi gradi di intensità differenti;il terzo è al-

'Afuww'Colui che cancella le cattive azionl': tutti i difetti, i peccati, le trasgressioni di ogni genere vengono cancellati dal registro tenuto presso gli angeli scribi, e scompaiono per sempre per pura misericordia divina.

Sono questi tre diversi aspetti del perdono divino che il fedele musulmano è chiamato a ricercare per poter effettivamente purificarsi, riuscire a coprire alcuni lati oscuri della propria anima e cercare di partecipare al servizio della Misericordia divina.

Come si ottiene il perdono?

Il perdono è qualche cosa che, in effetti, si ottiene soltanto per volontà divina. Noi, quindi, non abbiamo certezza di essere perdonati e solo alla fine dei tempi, quando ci sarà il Giorno del Giudizio, potremo vedere in che misura alcuni peccati sono stati cancellati, alcune colpe perdonate e alcune azioni rese oggetto di un atto di misericordia. Noi non abbiamo nessuna certezza al riguardo, né qualcuno che possa decretare una certezza di perdono, come accade in altre confessioni religiose: è qualcosa che dipende direttamente da Dio e quindi la pietà individuale e il timore di Dio costituisce proprio una caratteristica di questa 'non sicurezza' .Il fedele musulmano deve cercare di essere pio, virtuoso, timorato, proprio perché fino all'ultimo egli non sa addirittura se il grado del pentimento, in termini di livello di sincerità, gli sarà riconosciuto e se il perdono gli verrà conferito.

Tutti commettiamo delle cattive azioni, consapevolmente, o addirittura inconsapevolmente, la disposizione d'animo del fedele musulmano, dunque, è quella di mantenersi sempre nella speranza di essere perdonato delle sue mancanze, oltre che di mantenersi nella fede in Dio.

Esistono colpe che non possono essere perdonate?

Tendenzialmente no: Dio ha la capacità di perdonare qualsiasi situazione. Esistono, però, errori che il diritto islamico richiama fermamente il fedele a non fare. Uno di questi è di associare qualche cosa a Dio, o piuttosto di sostituire a Lui qualche cosa o qualcuno. L'idolatria,l'ignoranza di Dio e l'associazione a Dio di qualche cosa d'altro è uno degti atti piu riprovevoli, che determina poi tutta una serie di degenerazioni e di cattive azioni, perché si fa di se stessi Dio, oppure si fa di un idolo Dio. Il fedele musulmano non rende più conto più al Creatore, al proprio Signore, delle azioni che compie, ma assurge a voler essere garante di se stesso, o diventa violatore di qualsiasi regola divina,  dettando le proprie regole secondo il proprio idolo o secondo il proprio narcisismo. Uno dei peccati piu gravi è proprio negare Dio, sostituirlo e idolatrare qualche altra cosa al Suo posto.

Dio è libero di assolvere e punire chi commette colpa: a che scopo si chiede il perdono se è Lui a scegliere?

Questa è una sfumatura dei misteri della relazione tra creatura e Creatore, fra il credente e il suo Signore. Dio è onnipotente, e l'uomo no, e quest'ultimo può solo sperare nella misericordia di Dio;  questo fa sì che il pentimento sia di diversi gradi: per esempio quello di chi è consapevole di aver fatto una cattiva azione (per esempio dopo aver avuto un brutto pensiero, pentirsi di averlo concepito, o dopo aver risposto male ad un amico, pentirsi sia nei confronti dell'amico che nei confronti del Signore di questa azione), ma sempre senzalacertezzadi essere assolto. Il fatto che non si abbia questa certezza di essere perdonati non comporta il fatto di venire meno all'inclinazione di doversi pentire. Il pentimento è una disposizione dell'animo costante, che però nell'Islam si traduce di piu con pietà spirituale o con timore di Dio: uno dovrebbe vivere costantemente nel timore di non essere perdonato, o di non essere l'oggetto della misericordia di Dio, di essere, corne si diceva in altri tempi, 'al di fuori della graziadi Dio'. Essere 'al di fuori della grazia di Dio' è una sconfittatale per la natura dell'uomo, che dovrebbe, invece, cercare la Sua grazia: e ciò lo si ottiene soltanto con una disposizione d'animo alla pietà spirituale, che corrisponde in realtà ad un pentimento costante.  

L'ignoranza della colpa è ammessa? E la misericordia allora viene da Dio?

La misericordia viene da Dio, ma I'ignoranza della colpa è relativa, nel senso che in termini di principio, come dicevo, noi dobbiamo sapere che ci sono pensieri o atti, che consapevolmente o inconsapevolmente purtroppo non sono in armonia con l'ordine divino. Il pentimento prevede la richiesta di perdono sia per pensieri o atti che noi conosciamo, e riconosciamo piuttosto come sbagliati, sia per quelli di cui non siamo consapevoli, ma che stanno disattendendo la nostra obbedienza, o regolarità, o priorità in termini di natura spirituale.

Che rapporto c'è fra peccato e società, ovvero che ricadute può provocare Ia colpa del singolo sul contesto sociale?

Il peccato come violazione dell'ordine divino, come enore, provoca sicuramente una conseguenza sia a livello dell'interlocutore, che ne subisce le conseguenze, che a livello dell'armonia generale della società e della comunità. Agire nella grazia di Dio è un irradiamento della grazia di quest'ultimo non soltanto in noi stessi, ma in tutto l'universo. Agire, viceversa, fuori dalla Sua grazia, cioè commettendo una colpa o una violazione dell'armonia universale, provoca in noi stessi  (e nell'altro) una consegtrenzadi caos e di disordine. A questo disordine si puo sopperire, in qualche modo, con un recupero, con la restaurazione di un ordine che si può attuare tramite il pentimento e la giustizia.

Nella religione cristiana la settimana che precede la Pasqua è particolarmente favorevole alla penitenza e alla richiesta di perdono a Dio da parte del fedele. C'è qualcosa di analogo nella religione islamica?

Sì, per quanto appunto credo dovrebbe essere una costante sia per i cristiani che per i musulmani cercare di evitare errori e pentirsi quotidianamente. Esistono dei momenti particolari di concentrazione e di devozione al pentimento, che nel calendario islamico sono quelli del mese da noi detto di Ramadan, quello in cui al pentimento si aggiunge anche la prescrizione del digiuno. I fedeli adulti e in buona salute si pentono e ricercano lagraziadi Dio con l'atto del digiunare,  dall'alba al tramonto, per I'intero mese, che per noi ha una durata variabile media di 29 giorni. Dall'alba al tramonto in questi giorni il fedele musulmano realizza, se vogliamo, o manifesta il suo pentimento, con un digiuno da alimenti e bevande.

Il perdono fra gli uomini prevede o prima o accanto al perdono stesso, la giustizia; mentre il rapporto con Dio è segnato dalla misericordia. Ci può spiegare meglio questo concetto, se è giusto come interpretazione della vostra dottrina?  

Direi che questa è una proiezione molto valida: l'uomo non può usarsi misericordia, mentre può cercare di agire con giustizia. Egli può sperare che Dio lo perdoni e anche che un altro uomo, suo interlocutore, lo perdoni di una maneanza che gli è stata apportata. Il senso di giustizia è ad un livello di coscienza e di intelligibilità che permetterebbe ad ogni credente di agire giustamente. La conformità tradizionale, la coerenzanei confronti dei principi della religione e della fede,  dovrebbero ispirare naturalmente l'uomo e la donna ad agire con giustizia, mentre la coscienza di avere agito con giustizia o meno è presente in ogni persona credente, sia uomo che donna. La giustizia è un parametro per agire nella vita, mentre la misericordia è una speranzachepreghiamo si possa realizzare, al di là di quello che noi possiamo essere consapevoli di fare, perché supera il livello della coscienza.

Nell'Islam il concetto del perdono come entra, se entra nella prassi della convivenza civile e nella politica?

Entra nella misura in cui qualsiasi responsabile del governo, o del suo settore professionale, o di una realtà o unità famigliare, cerca di venire meno all'orgoglio per la propria responsabilità,  ammettendo di aver sbagliato quando ne riconosce l'errore e cercando di rimediare con un'azione che non si limiti soltanto a chiedere scusa agli interlocutori, ai membri della famiglia, a quelli della società, o a quelli della cittadinanza, ma correndo anche rischi vari e offrendo comunque un servizio che possa essere utile. Sono due i livelli: il livello di coscienza e di testimonianza dell'errore e quindi del pentimento, e quello di offrire non soltanto una preghiera a Dio, ma anche un'azione di recupero che possa essere accettata da Dio come espiazione del danno provocato. 


L'Islam come lo conosce il grande pubblico in Occidente sembrerebbe lontano dal concetto del perdono. Cosa c'è di distorto in questa visione?

Direi che purtroppo è una visione che prende in considerazione il livello di decadenza della comunità dei credenti musulmani, cioè mi sembra che, in alcune correnti, prevalga un senso di giustizialismo 'fai da te' con una concezione ideologica della giustizia senz'altro sbagliata, ma che lo è doppiamente perché a questo giustizialismo violento e formalista, ideologico e rivoluzionario,  si aggiunge anche una totale maîcanza di amore, di carità, di gentilezza, di disponibilità generosa nei confronti del prossimo. Questo è forse la corrente più politicizzata dell'Islam contemporaneo,  quella che viene piu conosciuta in Occidente. Va detto che accanto a questa corrente rumorosa e dura, c'è la maggioranza del popolo dei credenti e dei sapienti musulmani che invece cerca di praticare la giustizia, di arginare I'errore e di riuscire anche a perdonarsi, o piuttosto ad aiutarsi ad amarsi per crescere bene insieme. Di questa ultima parte 'sana' si è persa un po' la coscienza e I suoi rappresentanti, forse, non sono così efficaci nel riuscire a mostrare questa componente di luce,  mentre quella che emerge è purtroppo una componente di oscurità.





INTERVENTO DEL RABBINO CAPO DI ROMA, RA,V PROF. DR. RICCARDO SHMUEL DI SEGNI

Il perdono è parte di un processo di ricostruzione di un rapporto alterato, che riguarda due parti, chi offende e chi è offeso. Offesi possono essere gli esseri umani, ma non solo loro, possono essere offesi gli animali, i vegetali, la natura;  in una prospettiva religiosa il divino da solo o Lui insieme a uomini e natura. Di solito chi offende è I'uomo, ma in una prospettiva ebraica persino l'ordine divino può offendere e meritare perdono. Chi ha offeso deve prendere atto che I'azione da lui commessa è scorretta, confessarla come tale a sé stesso e discretamente davanti a D., e impegnarsi a non farla più. E' ciò che si definisce teshuvà, letteralmente il "ritorno", tecupero di un cammino retto dopo aver deviato. Dopo questi atti chi ha offeso deve riconciliarsi con I'offeso,  chiedendogli il perdono. A sua volta I'offeso deve concedergli il perdono; può rifiutarlo per due volte, allaferza deve cedere; se non lo fa chi ha offeso non è più tenuto a chiedere scusa. Se l'offesa riguarda la natura, non c'è chi può

perdonarla.

Il perdono è una riparazione morale dell'identità, è l'acqua che cancella la macchia della colpa e che spegne il fuoco del rancore. Se è unilaterale e gratuito, nel senso che chi ha offeso non fa nulla per ottenere il perdono, questo spegne il fuoco del rancore ma non toglie la macchia.

Il perdono, come processo morale, non élimina la necessità della sanzione, che deve servire a riparare il danno procurato, a creare un deterrente nella società e anche ad aiutare il colpevole a riflettere sul male compiuto.

Il perdono non può essere delegato. Solo chi è stato offeso può esercitare questo diritto-dovere. Un genitore cui è stato ucciso un figlio può perdonare il dolore arrecato al genitore, ma non I'omicidio che riguarda un altro individuo. 

Il soggetto che chiede perdono deve essere il responsabile, non si chiede perdono per delega. Il discorso si complica se c'è una colpa collettiva che riguarda una società o un'istituzione. Se i suoi membri sono cambiati, la richiesta di perdono non canòella la macchia passata, ma ha il valore positivo di stabilire le basi per un nuovo rapporto, un impegno per il futuro.

Il perdono è essenziale per la soprawivenzadel mondo. L'errore è parte della natura umana e se vi dovesse esistere solo giustizia non vi sarebbe sopravvivenza per gli esseri umani. All'inizio della Genesi vi sono due racconti della qeazione, e il creatore vi compare con due nomi diversi; prima come Eloqim, poi come Hashem-Eloqim. I rabbini così spiegano questa stranezza: il primo nome è quello della giustizia.D. aveva progettato un mondo basato sulla giustizia; vide che non poteva resistere, e allora accostò al principio della giustizia quello della misericordia, rappresentato dal nome Hashem. Con la sola giustizia non si soprawive, ma neanche con il perdono da solo; le due cose devono andare insieme.

Il perdono troppo spesso è agitato come misura reale della bontà politica. Ma come tale si presta ad abusi e falsificazioni. Se non fai la pace è perché non sei capace a perdonare. Se non sei capace a perdonare è perché sei naturalmente e culturalmente cattivo. Prendi esempio da me che sono sempre disponibile a

perdonare. Quante volte in televisione vediamo dei giornalisti imbecilli che chiedono a vittime o a familiari di vittime di efferati delitti se sono disposti aperdonare. Suggerirei alle vittime la risposta: perdoniamo tutti tranne i

giornalisti che fanno queste domande. E' la retorica del perdono, del perdono richiesto sempre agli altri, della società che vuole fare a meno della giustizia,  che è requisito, compagna indissociabile-del perdono. La vera pace tra esseri umani singoli o tra collettività, istituzioni, stati, è un processo graduale, che richiede sospensione delle ostilità,, riparazione del torto, accordi di buon vicinato, garanzie di non aggressione, stabilimento di comunicazioni e riconoscimento dell'altrui umanità. Da questo può scaturire la convinzione di

aver sbagliato prima, e la volontà di non continuare a sbagliare dopo.   

E' la consapevolezza dell'errore procurato che fa breccia nel cuore dell'offeso.  Ci vuole uno sforzo eroico da entrambe le parti; un antico detto rabbinico insegna: "chi è il vero eroe? Colui che fa del suo nemico il suo amico".Ma il nemico qualche sforzo lo deve fare anche lui. La retorica del perdono è quella che meite sullo stesso piano penitenti e impenitenti, criminali recidivi (singoli,  o ideologie, o stati) insieme a colpevoli che però hanno capito che bisogna

smettere e cambiare. E non sono la stessa cosa. Anche le vittime hanno i loro diritti, che vanno rispettati.  Oggi si passa senza alcun controllo per quella che fu la frontiera tra Germania e Francia, una frontiera che ha visto nel secolo scorso milioni di morti in guerre

che ora appaiono senza senso. Appunto, oggi nessuno o quasi si sognerebbe di rialzare le barriere e ricominciare a sparare. In tutto questo è stato necessario il perdono? O piuttosto è stata decisiva la feroce sanzione contro la feroce aggressione, la consapevolezza della follia delle ideologie, il prezzo enorrne pagato? Il perdono, se c'è stato, è venuto dopo; ma è la coscienza maturata sull'assurdità del conflitto che ne ha impedito il riproporsi.