
CONFERENZA SU “IL PERDONO NEL CRISTIANESIMO E NELL’ISLAM”,
PROMOSSA DALL’AIEDI E REALIZZATA IN COLLABORAZIONE CON
L’USEK (UNIVERSITÉ DU SAINT ESPRIT DE KASLIK - BEIRUT)
SALA CONFERENZE DELL’USEK, VENERDI’ 9 MAGGIO 2014 ORE 17,00


Saluto e ringrazio vivamente gli autorevoli relatori, per avere accettato di partecipare a questa conferenza sul Perdono nel Cristianesimo e nell’Islam, nonché le distinte persone presenti nella sala delle conferenze dell’USEK per averci onorati di assistere a questo evento.
Desidero menzionare i motivi della scelta del Libano (che alcuni decenni fa era conosciuto come la Svizzera del Mediterraneo), dove iniziare il ciclo di conferenze dell’AIEDI all’estero su temi di attualità in una prospettiva di dialogo ecumenico e interreligioso. Tali conferenze all’estero si affiancheranno d’ora in poi a quelle svolte e da svolgere in futuro a Roma.
Il primo e più importante motivo della scelta del Libano risiede nella circostanza che il Paese dei cedri offre un modello esemplare di convivenza, instauratosi tra le sue comunità caratterizzate da diversa estrazione culturale e differente credo religioso. Giova evidenziare al riguardo che il Libano ha introdotta la celebrazione della solennità dell’Annunciazione (divenuta in prosieguo di tempo festa nazionale libanese) definita come la prima celebrazione islamo-cristiana della storia. Dispiace, invece constatare che tali fattori, altamente positivi, non siano tenuti nel debito conto da una parte della classe politica libanese attuale che fa ritardare la nomina del Presidente della Repubblica, lasciando negli osservatori degli avvenimenti libanesi uno stupore ed una amarezza per l’agire di tali politici che espongono il Paese a rischi, mentre incombe a loro il compito di guardare con occhio sereno e lungimirante alla situazione contingente, senza perdere di vista l’unità nazionale, attenendosi ad un comportamento consapevole dei propri doveri e consono agli equilibri faticosamente ma fortunatamente raggiunti.
Un altro motivo riguarda la città di Beirut che ha delle affinità con Sorrento, la mia città natale, la quale, però, rispetto alla capitale libanese è molto più piccola sia per popolazione che per estensione territoriale. Entrambe le città si affacciano sul mare e sono mete turistiche. I loro rispettivi abitanti furono esperti navigatori; i fenici però, a differenza dei naviganti di Sorrento, sono passati alla storia perché le loro numerose navi si dirigevano verso i porti del bacino mediterraneo, in una zona costiera molto più estesa rispetto a quella assai limitata della costa tirrenica, che si estendeva dal Golfo di Napoli al Golfo di Salerno e che era frequentata dalle navi della città di Sorrento.
La conferenza di questa sera si è potuta realizzare grazie alla collaborazione dell’USEK con l’AIEDI, che è una piccola associazione di promozione sociale senza fini di lucro, istituita il 10 maggio 2011. La sua composizione è simile a quella di altre Associazioni di promozione sociale. Ha un numero molto limitato di soci, questo, però, non le impedisce di realizzare la sua attività, che per ora si limita alla sola organizzazione di conferenze. L’origine della denominazione dell’AIEDI deriva dall’unione delle lettere iniziali delle parole: “Associazione Internazionale per l’Ecumenismo ed il Dialogo Interreligioso”.
Per quanto attiene ai suoi obbiettivi l’AIEDI, mediante la sua attività, si prefigge il confronto tra le varie posizioni di persone aventi diversa lingua, estrazione culturale e credo religioso su temi di attualità riguardanti i settori del sociale, dell’economia, della cultura, della bioetica e delle migrazioni. Dal confronto delle differenti posizioni, l’AIEDI intende promuovere e sviluppare delle idee che nel loro insieme possano dar luogo ad un processo di convergenza. Pur essendovi consapevolezza che la convergenza, come obbiettivo di un tale processo, sia di difficile realizzazione, tuttavia vi è la ferma convinzione che esso, possa rendere possibile nei suoi stadi intermedi, il raggiungimento, per approssimazioni successive, di qualche risultato niente affatto trascurabile nel lungo e delicato processo per la pace e la giustizia nel mondo. Una tale convinzione spinge l’AIEDI a perseverare nel continuare la sua attività, contribuendo nel suo piccolo, a sviluppare sentimenti di amicizia e fratellanza, ad annullare le diffidenze ed a creare un clima di collaborazione reciproca con coloro che vengono in contatto con tale associazione.
Il tema di questa sera: “Il Perdono nel Cristianesimo e nell’Islam” ci offre l’opportunità di conoscere le posizioni di due delle tre Religioni monoteistiche sul tema del perdono e le riflessioni che ne potranno scaturire consentiranno certamente di intraprendere un cammino arricchito, di altri nuovi sentieri, che si dirigono verso il traguardo del bene prezioso della pace.
Il dialogo interreligioso, tendente ad una convergenza delle varie posizioni nella realtà odierna va imponendosi sempre di più. Ovviamente è possibile registrare progressi nel cammino dialogico se il dialogo si basa sulle due seguenti condizioni essenziali:
a) la volontà sincera delle parti in causa di voler tendere alla convergenza delle diverse posizioni in vista del perseguimento di fini nobili (quali la pace, la giustizia sociale, il rispetto dei diritti umani, ecc.);
b) la chiara conoscenza dell’argomento che consente di far comprendere bene agli
interlocutori i punti nodali che si intendono sciogliere nell’incontro dialogico.
Nel caso della pace a queste due condizioni ne andrebbe aggiunta una terza: il perdono, che è essenziale per la riconciliazione ed è il più importante passo da compiere lungo il cammino verso la pace.
Senza la conoscenza di qualsiasi tema o problema non è possibile tendere alla convergenza. Senza la tendenza verso la convergenza e senza il perdono è difficile che si potranno registrare progressi per la pace, che costituisce uno dei più importanti traguardi del dialogo interreligioso.
I Paesi dell’area mediorientale, ai loro vertici decisionali, dovrebbero esprimere persone capaci e lungimiranti come Schumann, Adenauer e De Gasperi che riuscirono, con il coinvolgimento dei Paesi viciniori, a realizzare il loro progetto di costituire una zona di cooperazione socio-economica con reciproci vantaggi per i Paesi che vi aderirono. Il progetto si rivelò efficacissimo per assicurare una pace duratura nel Vecchio Continente, dilaniato per secoli da guerre fratricide che, col senno di poi, sono apparse senza senso. Con il progetto europeo si affermò un clima fruttuoso di pace, di fratellanza e di amicizia fra Paesi che fino a poco tempo prima erano stati acerrimi nemici. In una simile ottica anche in Medio Oriente è possibile realizzare un progetto analogo a quello europeo, superando le immancabili obiezioni di qualche Paese dell’area che nutre avversione, od anche scetticismo verso tale progetto anche a causa di torti ricevuti da un altro Paese dell’area. Tuttavia se si vuole sinceramente che la pace si affermi, quel paese che ha compiuto torti dovrebbe essere invitato a partecipare all’esperienza europea. Pertanto se la pace è immensamente desiderata in Medio Oriente, si rende necessaria la partecipazione di tutti i Paesi dell’area a tale esperienza. L’esercizio del perdono da parte dei partecipanti al progetto di cui trattasi è senza dubbio essenziale per un avvenire senza conflitti.
Anche se lo scenario mediorientale è completamente diverso da quello europeo, tuttavia è possibile adattare ad esso l’esperienza europea per raggiungere l’obiettivo della pace, pace che indiscutibilmente passa anche per la libera circolazione delle persone e delle merci. A tal fine sarebbe opportuno e necessario, dove attualmente è possibile, iniziare la stipula di Accordi di libera circolazione delle persone tra i Paesi aventi contiguità territoriale, i quali potrebbero poi coinvolgere nell’iniziativa altri Paesi viciniori.
Non vi è dubbio che esistano difficoltà obbiettive che potrebbero scoraggiare coloro che desiderano realizzare l’esperienza europea nell’area mediorientale, ma le difficoltà non possono che essere gradualmente superate dalle persone aventi non solo poteri decisionali, ma anche l’obiettivo di assicurare un avvenire di pace e di serenità alle popolazioni mediorientali e specialmente a tutti i bambini del Medio Oriente, che non debbono continuare a vivere nel terrore per i bombardamenti e nelle sofferenze anche psicologiche di ogni genere, ma godere di una vita senza traumi, alla quale tutti i bambini hanno diritto.
Quanto affermo può sembrare utopistico, ma avendo visto nel corso della mia vita tante utopie divenute successivamente delle realtà, concludo con l’auspicio di un futuro di pace in tutto il Medio Oriente, mediante una rinnovata e profonda comprensione del perdono e della riconciliazione da parte di tutti, volenti o nolenti.
Padre Gaby Alfred Hashim
Il perdono è inerente al Cristo e al Cristianesimo. Questo discorso non vuol dire escludere qualcuno o un’altra religione dal perdono, ma è un tentativo per penetrare la profondità del mistero di Dio, così come ce l’ha mostrato Gesù Cristo; è anche una riflessione spirituale ed esistenziale, alla luce dell’evoluzione che la teologia ha conosciuto attraverso la storia, ed è uno sguardo alla missione celeste che si estende per tutto il tempo a venire e che sussisterà fin quando l’uomo si sforzerà di l’assoluto.
Comincerò la mia presentazione ricordando, in primo luogo, la centralità teologica del perdono nel Cristianesimo, a partire dall’evento salvifico che si è manifestato nel piano di Dio e nella storia. Quindi passerò all’interpretazione cristiana del significato e della pratica del perdono e di come questa interpretazione] si è riversata nella struttura sacramentale e spirituale, in all'evoluzione che si è verificata attraverso le generazioni, fino ad arrivare ai giorni nostri. Infine, mi soffermerò su di un nuovo aspetto, emerso nel XX secolo, a proposito della richiesta e del conferimento del perdono nella Chiesa, nella speranza che questo aspetto inauguri per noi un nuovo capitolo e una visione più ampia allo scopo di pervenire, tramite l’amore, alla pienezza della libertà.
- 1. L’evento salvifico della croce e della resurrezione nel Cristianesimo è incentrato sul perdono
Non vi e' dubbio che il perdono nel Cristianesimo si basa sull’evento salvifico e trova il suo significato più elevato nella forza delle parole di Gesù, nelle Sue opere e nella Sua vita, fino alla fine e cioè fino al momento culminante, quando ha detto sulla croce: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno ...”[1] La stessa incarnazione non ha significato se non la si collega indissolubilmente con il mistero della riconciliazione che si compie per mezzo della redenzione. Non e' possibile che si realizzi la redenzione se non con la vittoria sul peccato e sulla morte, attraverso la resurrezione!
Il perdono della croce passa attraverso le varie forme di perdono reciproco, allo scopo di ripristinare l’alleanza tra Dio e l'uomo in vista della partecipazione alla vita divina, cioè alla deificazione, come unico destino degno, secondo la concezione cristiana, della creazione e delle creature. Ciò che colpisce al riguardo è il comandamento di Gesù ai suoi discepoli: “Amate i vostri nemici, come io vi ho amato ...”,[2] questo comandamento è di difficile realizzazione nella dimensione storica e dà un significato escatologico al perdono della croce, dal momento che non resta alcun nemico dopo l’universalità della salvezza tramite la croce.[3]
Fin dai primi tempi della Chiesa, la comunità cristiana ha compreso che [il Cristianesimo] è sinonimo, secondo il suo stesso credo, del sacramento della riconciliazione tramite il perdono. Per questa ragione, il Vangelo di Giovanni annuncia: “Dio, infatti, ha tanto amato il mondo al punto da sacrificare il suo unico figlio, affinché chi crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna ...” Ciò allo scopo di ripristinare l’alleanza con l’uomo, durante la sua vita. L’amore è legato alla capacità di perdono, offrendo ciò che si ha di più caro. Il perdono dipende dall’estensione dell'amore o, in altre parole, non ha senso il perdono senza amore o ancora la più alta manifestazione dell’amore è il perdono.
Il perdono cristiano sgorga dal cuore della vita trinitaria
Il Figlio è stato sacrificato ed è stato donato lo Spirito, secondo la teologia cristiana, e tutti e due illustrano la profondità della saggezza della provvidenza del Padre e [la profondità] del Suo amore per l’umanità. La creazione è un atto d’amore e così pure la provvidenza; l’accettazione della croce è un atto d’amore, specie nei momenti più critici della perfidia umana e della licenza morale dell’umanità. Il nostro Dio non è un Dio di punizione, ma un Dio di salvezza.
L'obbedienza del Figlio, che rappresenta l’essenza del suo sacerdozio eterno e storico, attraverso il dono di sé ad espiazione del peccato dell'uomo, è anch’essa un atto d’amore di cui il Figlio è fiero, non perché sia in concorrenza con l'amore del Padre, ma perché Egli è la più vera espressione della divinità in veste umana e la più eloquente manifestazione di questo stesso amore, poiché "non c’è amore più grande di un uomo che sacrifica sé stesso per i suoi cari ..."[4]
Cristo ha detto che noi siamo i suoi cari (!) e che l’effusione dello Spirito Santo - Spirito di Dio e linfa della Sua vita – nei nostri cuori è una prova certa del costante amore del Padre e del Figlio e un segno della continuità del perdono universale, che si è realizzato tutto in una volta per l’intera umanità ma che continua ad esistere e a rinnovarsi fino alla fine dei secoli. lo spirito è un segno, una testimonianza tangibile, all’interno delle nostre relazioni umane innestate nel divino, che attesta il perdono di Dio e l’evento della Croce, che ha realizzato la riconciliazione finale, nel senso escatologico.
Dopo la risurrezione, Dio non abbandona l’uomo. Dio rimane fedele anche se l’uomo lo rinnega, come conferma l’apostolo Paolo: “Se moriamo con lui, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, anch’egli ci rinnegherà; se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare sé stesso”[5]. Il perdono è un segno del trionfo totale dell’amore di Dio sul peccato, poiché non è possibile, secondo alcuni teologi, immaginare la durata di Dio e del male, alla fine del tempo e della storia. Questo concetto teologico è alla base della religione cristiana: il perdono di Gesù sulla croce è un segno tangibile del perdono di Dio e della riconciliazione - per mezzo del corpo del figlio crocefisso e del sangue della nuova alleanza, versato per molti (cioè per tutti ) - riconciliazione che si riferisce alla vita terrena e alla vita eterna. Questo è ciò che intendevamo quando abbiamo detto all’inizio che il Cristianesimo è la religione del perdono.
Diffusione del perdono di Dio per mezzo di Gesù Cristo
Gesù è legato al perdono dei peccati, nella fede, grazie all’immagine che si è trasferita a Lui del Dio Padre, Clemente, Misericordioso e Pazientissimo. Quale esempio migliore delle parole di Gesù: “I tuoi peccati ti sono perdonati”; quale parabola più bella di quella del figliol prodigo nel Vangelo di Luca, capitolo quindici; quale appellativo più degno del “Padre misericordioso”; quanto è sorprendente l’emancipazione della donna trovata in adulterio e le parole che Gesù le rivolge: “Va e non peccare più ...”;[6] quale portata ha avuto lo sguardo di Gesù rivolto a Pietro, dopo il triplice tradimento, e quale domanda significativa, riferita a conclusione del Vangelo di Giovanni, capitolo ventuno , “Simone, figlio di Giovanni, è vero che mi ami più di costoro?”.
E questo [è avvenuto] prima di assegnare a Pietro la missione di rinsaldare la fratellanza e di guidare il popolo, che era caduto a causa della propria debolezza, ma che era stato conquistato dallo sguardo benefico dell’amore. Tutto ciò presuppone, naturalmente, la fede in Gesù che è il Figlio unigenito - della stessa natura del Padre e dello Spirito - il quale è in grado di concedere il perdono accompagnandolo con i miracoli, segni tangibili di questa potenza divina, come nella guarigione del paralitico, quando ha detto alla folla stupita: “Che cosa è più facile: dire prendi il tuo lettuccio e cammina o i tuoi peccati ti sono perdonati?”[7] Non c’è dubbio che le parole e l’opera di questo miracolo sono legate le une all’altra, come segno del legame tra la dimensione divina nella storia e la realtà dell’uomo e come testimonianza della capacità di Gesù di perdonare i peccati.
- 2. Sviluppo del perdono cristiano nelle pieghe della storia
Uniformarsi al perdono di Cristo sulla croce
Spostandosi dalle salde basi scritturarie e teologiche, basate sulla dimensione divina, alla dimensione storica che si realizza nel figlio e nelle persone, c’è un divario che, talvolta, si restringe e, talvolta, si allarga. All’inizio del Cristianesimo, come riferiscono gli Atti degli Apostoli, troviamo una analogia tra il perdono di Gesù Cristo agli altri due crocefissi e il perdono di Stefano protomartire ai due che lo lapidavano. In questo atto cessa il discorso dei ‘nemici’, il perdono comprende tutti senza eccezione, poiché laddove non si tiene conto del peccato non alberga l’inimicizia, ma prevale la fratellanza insieme alla tolleranza e all’amore. I cristiani dei primi secoli tralasciarono il ricorso alla violenza e alle armi per difendere la loro vita; le lunghe liste di martiri testimoniano ciò; storie che dimostrano chiaramente l’adozione totale, da parte della Chiesa, della via dell’amore, sull’esempio del maestro Gesù, unica via per fronteggiare l’oppressione e l’ingiustizia. Questo per quanto riguarda il legame con il mondo esterno. La cosa era diversa per quanto riguarda la relazione dei cristiani all’interno della Chiesa, cioè la loro relazione degli uni con gli altri.
Il pentimento è la via per raggiungere il perdono con la nuova nascita che si ottiene col battesimo
I primi cristiani ritenevano che la sostanza della loro fede risiedesse nell’imitare il Maestro, nel conformarsi ai suoi costumi e nel seguire le sue orme, in modo da diventare un popolo di santità. Sì, il Cristianesimo è una via e un metodo per seguire il Cristo fino al martirio. Per numerose ragioni, la più importante delle quali la preservazione della santità della comunità contro ogni lacerazione che poteva indebolirla, i cristiani hanno legato il vero pentimento al battesimo, che si riceve una volta nella vita, e l’hanno considerato una condizione imprescindibile, come appare chiaro dagli insegnamento dei padri ai catecumeni, durante la loro preparazione per entrare nella fede.[8]
L’ottenimento del perdono era dunque perfetto con il battesimo, che significava aderire al Cristo, superare la morte verso la Resurrezione, e nascere nuovamente per mezzo della luce divina. Il perdono è stato legato al battesimo e il pentimento vero, che è irreversibile, è diventato l’unico modo per accedere al lavacro della seconda rigenerazione verso la vita divina trinitaria. Questo è quanto è stato richiesto per secoli: la preparazione dei catecumeni che si accostavano alla fede con una preparazione approfondita, che durava mesi e anni, per assicurarsi della veridicità del loro pentimento e della loro capacità di impegnarsi nella vita di santità, fino alla testimonianza, anzi al martirio. Quindi noi non vediamo traccia del perdono, se non con questo significato, nella vita della Chiesa primitiva.
La prova di ciò, è quello che si legge negli Atti degli Apostoli circa l’inganno di Anania e di sua moglie e della loro bugia allo Spirito Santo, che li portò alla morte, nel senso dell’esclusione dalla società e l’espulsione dalla comunità.[9] Non c’era nessun perdono, a quel tempo, per coloro che abbandonavano la santità, anzi c’era severità nei confronti del peccato contro il regno di Dio annunciato da Gesù Cristo, il quale ha confermato il mistero della morte e della risurrezione e ne ha affidato la cura alla Chiesa fino al suo ritorno. Ma come erano allora considerati il perdono e la tolleranza di fronte ai peccati e agli errori dei fedeli?
Dal perdono liturgico alla nascita del sacramento della Penitenza e della confessione
D’altro canto, non è sorprendente che la liturgia[10] – cioè la celebrazione del mistero dell’Eucaristia – cominci con il perdono reciproco tra i membri della comunità per i peccati, gli errori e le omissioni ... gli uni perdonando gli altri, come Dio ci ha perdonato in Cristo. Riceviamo la misericordia e l'amore di Dio in quanto figli e imploriamo la Sua compassione e il Suo perdono. Ci perdoniamo reciprocamente prima di entrare nello Spirito e nella profondità del mistero della Trinità e della Chiesa. Per questo troviamo all’inizio dell'Eucaristia, nei diversi riti liturgici, le preghiere per il perdono, l’appello al pentimento e le preghiere ‘della porta regale’ prima di entrare nella Gerusalemme (il tempio) o nel luogo della mensa.
Alcuni hanno adottato una forma di celebrazione del mistero della Chiesa,[11] come, ad esempio, nella liturgia latina, dove la benedizione del celebrante somiglia, in larga misura, alle espressioni conclusive nel sacramento della confessione: “Dio onnipotente abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna”. Ciò che è degno di attenzione in questa tradizione liturgica comune, è l’adozione della pratica del perdono che si spinge al punto di collegare chi lo chiede e chi lo concede, come nella preghiera del Signore: “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori ...”,[12] e come nella parabola del padrone che perdonò l’uomo che aveva un grande debito nei suoi confronti, mentre questi non ebbe pietà del suo simile che gli doveva una modica somma.[13]
Alcuni di noi sono guidati dall’opinione che chiedere perdono a Dio sia più facile del chiedere perdono ad altri uomini, specialmente a coloro che sono legati a noi da parentela fisica o da una solida comunanza spirituale. Questo spiega la difficoltà di chiedere scusa o di perdonare coloro che ci sono vicini, perché la ferita è più grave quando ci viene inferta da coloro che amiamo, e, allo stesso tempo, non perdoniamo se non chi amiamo molto. Questo perché, il più delle volte, è necessario molto tempo, prima che il cuore si riprenda dallo shock della delusione, e torni a traboccare d’amore, sia per chiedere perdono sia per perdonare.
La prima istituzione sacramentale del perdono e il suo sviluppo nella storia della Chiesa e nel suo insegnamento
Il sacramento della Penitenza è nato nella Chiesa alla fine del terzo secolo, dopo la persecuzione dell’imperatore Decio (intorno all’anno 250 d.C.) che aveva imposto l’offerta sacrificale agli dei pagani e la necessità di avere testimonianze e certificazioni che comprovassero la cosa, altrimenti la sorte era la tortura fino alla morte.
Alcuni cristiani allora ricorsero a mezzi differenti (soldi, influenza, amici ...) che consentivano di ottenere tali certificazioni senza dover rendere il culto agli dei dello Stato, cosa che risparmiava loro la sofferenza delle persecuzioni; altri, invece, pativano quel che pativano senza evitare di sopportare la durezza della persecuzione fino alla fine. Questo scatenò un dibattito quando la comunità cristiana rifiutò di accettare coloro che non avevano sopportato il martirio, considerandoli dei rinnegati, mentre gli altri, che erano sfuggiti alle persecuzioni, restavano all'interno della comunità della Chiesa. Questo dibattito multiforme indusse la Chiesa ad accettare il principio del pentimento tramite l’espiazione, della durata di alcuni mesi e accompagnata dall’espulsione dalla comunità, prima di tornare a includere coloro che erano stati deboli e che avevano offerto i sacrifici. Il pentimento si basava sullo stesso principio che concerneva i tre peccati capitali: il rinnegamento della fede, l’omicidio volontario e l’adulterio pubblico, e ciò sopravveniva dopo la confessione pubblica davanti alla Chiesa riunita.
Si deve notare, a questo proposito, che la concezione del peccato era inerente al principio di santità, e cioè [il peccato] era contenuto dal fatto che esso comportava l’esclusione dalla società e l’allontanamento dalla via di Cristo, che consisteva nell’espulsione del peccatore dalla comunità e la separazione dalla società sotto l’aspetto spirituale e della fratellanza. In altre parole, ne conseguiva l’esclusione dei peccatori dalla mensa [eucaristica] e dalla comunità spirituale interrompendo ogni relazione sociale con essi.[14]
Nel concetto del pentimento e dell’espiazione, troviamo un fondamento storico a ciò che oggi chiamiamo il sacramento della confessione, istituito dalla Chiesa sulla base del principio dell’autorità “di legare e di sciogliere” presente nel Vecchio Testamento. Lì il capo della comunità ‘legava’ chi era colto nel peccato, cioè lo accusava davanti alla comunità, gli spiegava la gravità del suo peccato e lo ‘legava’ alla necessità del pentimento e dell’espiazione. Quindi lo allontanava fino a quando la sincerità del suo pentimento era accertata; allora si ricorreva al suo ‘scioglimento’ ed egli poteva tornare nel seno del popolo di Dio per seguire la via del Patto e della fedeltà. Il Signore risorto ha affidato alla Chiesa, e specialmente agli apostoli, l’autorità di ‘legare e di sciogliere’ perché essa è il popolo del Nuovo Testamento, tramite il suo sangue, e perché gli apostoli sono i guardiani del Patto.
Con il passare del tempo, la Chiesa ha alleggerito le prescrizioni del pentimento per misericordia e compassione dell’uomo, dopo che il Cristianesimo era diventato la religione dello stato, e l’appartenenza a esso significava l’appartenenza alla nazione e alla famiglia; si diffuse così il battesimo dei bambini. Il concetto e la pratica di questo sacramento si sono sviluppati attraverso i secoli e, dopo il decimo secolo, fu fissato in un istituto ben definito, poi confermato nel Concilio tridentino che si opponeva al movimento della Riforma, nel XVI secolo. Questo istituto, che continua ad essere in vigore ai giorni nostri, è molto simile, nella struttura, al "processo equo", anche se si limita alla confessione davanti al sacerdote, il quale è come se giudicasse in nome di Dio, ed evidenzia la necessità di una dichiarazione di colpevolezza, come segno del ‘legame’, e [la necessità] della punizione o prescrizione, come segno del pentimento, prima di ottenere lo ‘scioglimento’ e la riammissione nella comunione ecclesiale spirituale e fraterna.
Non vi è dubbio che il significato del pentimento è cambiato dal tempo in cui il perdono si otteneva , in una sola volta, con il battesimo e lo si associava alla visione radicale della santità della vita cristiana - alla quale occorreva restare fedeli - fino al tempo dei peccati reiterati e della confessione frequente. Il teologo Karl Rahner afferma, in uno studio svolto nel 1964,[15] che le due dimensioni del pentimento pubblico e della liturgia straordinaria, nel periodo successivo al Concilio di Trento, si sono ampliate per fare posto alla confessione individuale, nella sua forma estemporanea e limitata a ciò che accade tra il sacerdote, il quale rappresenta il gruppo, da un lato, e il peccatore che si pente, dall’altro. Ciò ha rappresentato una base, secondo la sua opinione, per il declino della pratica del sacramento della confessione, nonostante gli sforzi intrapresi dai pastori per incitare a restarvi fedeli, al punto da ritenere che l’esercizio di questo mistero versasse in una grave crisi!
Secondo il mio parere, questo slittamento dal pentimento inteso come cambiamento di mentalità e di vita, alla confessione, intesa come ammissione della colpa e lieve punizione o semplice prescrizione, contribuisce all’indebolimento del concetto di perdono nel Cristianesimo. Nel corso del tempo, la Chiesa non ha incoraggiato al sacramento della confessione, ma al pentimento interiore e all’impegno serio a seguire le orme di Cristo e a imitare la Sua vita, fino a incitare, al giorno d’oggi, ad accostarsi con frequenza al sedile del confessionale come segno del rafforzamento dei legami con Dio.
Ho parlato di ‘slittamento’ e intendevo con ciò lo slittamento dal perdono come effusione dell’amore divino per liberare l'uomo dal peccato, di fronte a Dio e al suo fratello, alla gestione ecclesiastica concernente l’autorità del ‘legare e dello sciogliere’ ... Mi sembra che il perdono sia il mistero dell’amore che va oltre il peccato e il peccatore per entrare nel mistero della misericordia infinita di Dio; con la confessione, invece, è come se il mistero della giustizia divina avesse preso l’immagine della giustizia umana.
- 3. Un nuovo stile di praticare il perdono nel XX secolo
La Chiesa cattolica ha compiuto un enorme passo in avanti, alla fine del XX secolo, sotto la guida di San Giovanni Paolo II, quando ha riconosciuto pubblicamente - in quanto istituzione umana - i suoi peccati, in occasione del Grande Giubileo del 2000. A tale riguardo, si tratta di un pentimento basato sulla convinzione che essa è infallibile solo in quanto istituzione divina che possiede l’autorità di legare e di sciogliere e di distribuire i benefici della redenzione; ma è anche un pentimento che riconosce di essere una comunità di peccatori, la cui infallibilità non è intaccata poiché scaturisce dal mistero di Dio, e spera in ogni momento nella tenerezza e nell’infinita misericordia del Signore! In questo modo, la Chiesa cattolica riconosce di essere una Chiesa divina e umana insieme, sempre santa, ma anche una comunità di peccatori allo stesso tempo, come dichiarato nell’articolo otto della Costituzione dogmatica: “Nella Chiesa, per agire nella storia ...”
Una grande fetta della società occidentale ha continuato a chiedere altri pentimenti e ammissioni di responsabilità collettiva su temi delicati e su gravi errori commessi da vescovi e sacerdoti, proprio nel momento in cui la posizione personale di Giovanni Paolo II, per il suo incontro con Ali Agca, si elevava a un livello tale di perdono, concesso a nome personale, da avvicinarla alla posizione di Cristo. Ci si continua a interrogare anche sul ruolo della Chiesa nel diffondere il perdono, allo scopo di rimuovere il muro di ostilità tra i popoli e gli individui. Ma sono molti gli esempi dei testimoni che si sono distinti in ciò, come i monaci trappisti che hanno scelto di prendere a modello il maestro Gesù Cristo fino al martirio, o come il monaco gesuita Franz Van der Lugt, morto a Homs, dopo molti anni di servizio e di amore ...
Chi non ha sperimentato la profusione dell'amore divino, non può comprendere la libertà dalla colpa e dal dolore cocente, perché a chi ha molto amato viene perdonato di più, mentre chi non ha amato resta prigioniero della disperazione e della morte. Gli esempi più eloquenti riguardo a ciò sono Pietro che rinnega [Gesù] e Giuda che lo tradisce! Se Dio ci ha amati pur essendo noi peccatori, quanto sarebbe opportuno per noi accettarci l’un l’altro e amarci scambievolmente, anche se siamo peccatori! Non abbiamo alcun dubbio riguardo all’elevatezza delle persone la cui vita è stata santificata dallo Spirito e sono giunti al grado del perdono celeste, dove gli innocenti e i santi cristiani si equivalgono - come quella donna iraniana che ha perdonato l’assassino del giovane figlio e lo ha fatto scendere dalla corda sulla forca - ma, nella maggior parte dei casi, permane il dubbio sulla capacità delle comunità cristiane di vivere il mistero del perdono divino, in un tempo in cui si brancola nel buio, la violenza imperversa e ci sono vari tipi di offese.
Dopo duemila anni dalla nascita di Gesù Cristo, è chiaro che il mondo non è migliorato fino in fondo, il peccato continua a dilagare, e l’uomo ha ancora bisogno della redenzione, della compassione e della tenerezza da parte di Dio. Dobbiamo interrogarci sul ruolo delle religioni e soprattutto del Cristianesimo, in vista della costruzione della pace giusta e globale, in un’epoca in cui il dito accusatore è rivolto verso quelle religioni che suscitano le guerre e sostengono il moltiplicarsi delle correnti radicali. La sfida più importante, per noi cristiani orientali, consiste nella nostra capacità di contribuire alla costruzione della pace nella regione del Medio Oriente, immersa nel buio della violenza, delle uccisioni e della distruzione.
Solo l’effusione dell’amore guarisce le ferite di modo che si possa chiedere e concedere il perdono. Come crescere i nostri figli e i nostri giovani all’amore affinché siano in grado di perdonare coloro che ci fanno torto, ci scacciano, ci uccidono, ci crocifiggono, ci fanno esplodere, offendono le nostre peculiarità e dissacrano i luoghi santi? Come facciamo a percorrere con loro la via della santità e dell’umiltà affinché ricerchino il perdono divino e chiedano perdono per coloro che sono caduti vittime dei loro peccati? Come possiamo educarli a ricevere l’effusione dell’amore nella loro vita di modo che fluisca dal loro intimo e li liberi da tutte le tenebre, apra i loro cuori al dono del perdono celeste, seppure dopo un lasso di tempo?
L’uomo non somiglia a Dio se non quando perdona, quando l’effusione dell’amore divino lo libera dai ceppi della morte, quando lo libera da sé stesso per essere in grado di dare il massimo, di concedere il perdono gratuitamente così come [gratuitamente] lo si acquista. Il perdono è collegato alla parte più interiore del cuore. Quanto alla giustizia essa è legata alle leggi della società. Noi possiamo costruire una società giusta, ma priva di amore. Possiamo essere avari nell’amore, ma solo in esso siamo sulla via della vera libertà, la libertà dei figli di Dio.
In conclusione, vorrei leggervi un passo tratto dalla preghiera della Pasqua nel rito bizantino che esprime molto efficacemente tutto ciò che ho cercato di comunicare alle vostre menti e ai vostri cuori circa il perdono della risurrezione, il trionfo dell’amore e l’affrancamento per mezzo della libertà:
"Oggi, nel Giorno della Resurrezione, gioiamo della festività! Stringiamoci la mano, e diciamo, o fratelli, che, in virtù della Resurrezione, perdoniamo ogni cosa a chi ci odia, ed esultiamo con queste parole: Cristo è risorto dai morti, ha calpestato la morte con la morte, e ha donato la vita a coloro che sono nelle tombe.”
[1] Lc, 34, 23.
[2] Gv, 12, 15.
[3] Cfr. Jurgen Moltmann, Le Dieu crucifié, Cerf, Paris.
[4] Gv, 15, 13.
[5] 2 Tim, 2, 11-13.
[6] Cfr. il brano riservato all’adultera nel Vangelo di Giovanni, 53, 7 fino a 8, 11 (?)
[7] Mt, 9, 1-8.
[8] Citiamo come esempi Cirillo di Gerusalemme, Giovanni Crisostomo, Teodoro al-Maṣīṣī e altri.
[9] Cfr. il capitolo quinto degli Atti degli Apostoli dove si legge la storia della bugia di Anania e di sua moglie Safira.
[10] Qui intesa come la preghiera usuale della comunità.
[11] Sacramento della Chiesa.
[12] Cfr. il Vangelo di Matteo, capitolo sesto.
[13] Cfr. Mt, 18, 23-35.
[14] Excommunion et excommunication.
[15] K. Rahner, Problèmes relatifs à la confession, in Elements de théologie spirituelle, DDB, Paris, 1964, pp. 161-180. Questa opera è una traduzione parziale di Schriften zur Theologie, III, Bensiger Verlag, 1957.
Sul perdono
Yuhanna Aqiqi
“Egli ci ha invitato, torniamo a Dio! Dio non si stanca mai di perdonare, mai! Siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono … Chiediamo la grazia affinché non ci stanchiamo di chiedere perdono, perché Egli non si stanca mai di concedercelo”. (Papa Francesco)
L’invito di Sua Santità, la massima autorità, ha le sue basi umanitarie e sociologiche in un’epoca di globalizzazione, in cui si moltiplicano – allo scopo di combattere e respingere [la globalizzazione] - le scomuniche, le urla di rabbia, le grida di vendetta, l'odio e perfino le minacce alla struttura della società stessa, in tutte le sue componenti. Se la religione ha un ruolo in questo conflitto, esso consiste nello spianare la via che si oppone ai suoi principi e che contrasta i giusti insegnamenti sui quali si fonda: gli insegnamenti dei profeti, dei messaggeri e degli uomini di buona volontà di tutte le culture e le età.
Il perdono è un termine religioso adottato dalle scienze umane - come è accaduto nella politica, per esempio, con i concetti di autorità e di giustizia; questi ultimi sono stati adoperati, in primo luogo, per rafforzare l’amministrazione della giustizia legale e processuale; in secondo luogo, per conferire all'autorità giudiziaria legittima la capacità di svolgere il suo ruolo e di conferire l’assoluzione dalla pena o la grazia per il reato.
Poiché [il concetto di perdono] è originariamente religioso e profondamente significativo, ci limitiamo con l’intervento di oggi, in un quadro ampio come questo, a due aspetti distinti: cristiano e musulmano, cosicché potremo forse trovare un’intesa per impegnarci, a livello concettuale e concreto, in favore del perdono, nel chiederlo e nell’ottenerlo. Questo è quello di cui abbiamo bisogno, in un ambiente travagliato come il nostro. Da questo semplice accenno, appare chiara la dimensione concreta del perdono e spiega [la necessità del] confronto; in ogni caso, si tratta di una questione filosofica, teologica (e dottrinale) molto profonda.
Prima di tutto, il discorso della montagna (Mt 5-8) costituisce un ricco materiale che merita la priorità in questa riflessione, dal momento che proclama beati i misericordiosi e impone di uniformarsi al volere divino come unica condizione per ottenere il perdono. Dio Padre vuole il perdono ed è Colui che lo concede; mentre l'uomo, se vuole [il perdono], deve, a sua volta, essere misericordioso e perdonare chi gli ha reso torto. Ma questo riferimento biblico non lo consideriamo, di primo acchito, come un insegnamento pratico, ma come un discorso ispirato e autorevole di Gesù, Figlio di Dio, che ha realizzato nella sua persona, con la sua vita, con i suoi insegnamenti e con la sua morte, le due dimensioni suddette, cioè la misericordia di Dio, profusa sul suo popolo, e il perdono nei confronti di coloro che lo hanno percosso e crocefisso.
E che cos’è la preghiera del Padre Nostro se non un’affermazione perentoria di questa volontà divina, che si bilancia tra i due movimenti: verticale, nel far discendere le grazie celesti, e orizzontale che si apre verso la concordia e la pace, ed entrambi sono autentici. Nei due processi c’è la purificazione e il superamento della condizione umana, che riconcilia l'io e il noi. Il Padre Nostro ci rimprovera per il nostro coinvolgimento in dispute occasionali: i fratelli che si amano volano insieme alla volta celeste, verso la comunità trascendentale. Egli vuole la nostra salvezza e ci incita al pentimento e al riconoscimento reciproco come Suoi figli; Egli imprime sui nostri volti il segno della riconciliazione recente, dopo che “è stata abbandonata la punizione del peccato e sono stati abbandonati il biasimo e il rimprovero” - [definizione dal dizionario] al-Qamùs al-Muhìt - cioè il segno della clemenza, dell’indulgenza, del perdono[1] e della grazia, cose che sono state rese possibili grazie all’azione della volontà individuale che si è associata al volere divino, incarnato nella persona del Signore Gesù.
Sulla base di questo argomento, Gesù Cristo ci ha fornito tutte le opportunità per accostarci al sacramento del perdono. Questo non è soltanto un sacramento volto alla riconciliazione con Dio e con il prossimo, ma è molto più profondo di quanto la mente umana, nutrita com’è dal sentimento della vendetta, possa comprendere. “Occhio per occhio, dente per dente”, l’uomo è imbevuto dall’odio nel suo intimo, e nutre rancore: “l’inimicizia ha afferrato il suo cuore e attende soltanto la sua opportunità” (dal dizionario Lisàn al-arab).
Le fondamenta e la struttura del perdono sono cristiane perché un ulteriore elemento è stato fornito - con estrema semplicità, trasparenza e forza – grazie all'esperienza di Gesù di Nazareth, figlio di Maria e figlio di Dio, e cioè l’amore “che tutto sopporta”, “tutto crede” (Romani 13)[2] “e copre completamente i peccati” (Prima lettera di Pietro). È l’amore il cui fascino Jankiljevic non è riuscito a capire e la cui assenza ha reso impossibile la comprensione del perdono da parte sua; [l’amore] è ‘follia’ ed è difficile poterlo cogliere in modo puro e completo, soprattutto quando va oltre l’individuo e continua per il suo sentiero, esso è infatti definito come ‘indescrivibile’. L’ebraismo di Jankiljevic può giustificare la sua difficoltà nel comprenderlo, se si collega il tutto con la parte, poiché la vera conoscenza è [per lui] nell’azione pura,[3] e manca del calore della fede in Gesù che ama e perdona.
Ma ciò che è difficile per Jankiljevic è del tutto senza senso per gli altri figli della sua stirpe. Sarà Anna Harendt a riconoscere la possibilità del perdono cristiano affermando con convinzione che "la scoperta del ruolo del perdono nel campo delle questioni umane è una delle opere di Gesù di Nazareth". L’amore non è solo perdono, ma è anche purificazione, perché ci libera da un passato doloroso, ci fa rinunciare alla vendetta e spezzare la legge della morte; l’umanità, nel discorso di [Anna Harendt], è invitata alla vita e al rinnovamento, non alla morte nell’odio e nella chiusura nel passato. Quindi, il perdono diventa ‘stupore primario’, ‘creativo’, come l’amore paolino che sopporta, spera e copre la disgregazione delle relazioni umane.[4] (Questo è quello cui abbiamo assistito qualche giorno fa, in Iran: una madre in lutto che risparmia l'assassino di suo figlio, ha misericordia di lui e lo perdona, spezza, all’ultimo momento, la corda mortale del patibolo per attestare il valore delle lacrime salvifiche che fanno sbocciare la rinascita; il tempo si ferma, si lava il sangue, e si purificano le intenzioni, mentre la figliolanza ritorna all’origine della vera maternità).
Se il perdono, in questo contesto filosofico e antropologico (secondo Jankiljevic),[5] è associato a tre cose: il tempo, la gratuità del dono e la relazione personale con l'altro, [la mamma iraniana] ha cancellato il tempo, poiché ha sganciato l’avvenimento dalla storia che era stata scritta dall’errore; lei commemora e perdona; traccia, pur nell’ ‘assenza della visione’ , ‘la grazia temporale’ che è ‘il calore dell’amore che non si vede’, nutre i legami della relazione umana, sconquassati dall’odio distruttivo.
Nell’etimologia semitica il perdono (mughfira) deriva da gh-f-r: ‘coprire’, ‘nascondere’, come il termine kippàra in ebraico, equivalente all’arabo kaffàra che diventa poi ghaffàra, ovvero il ‘piviale’, la veste liturgica che il sacerdote indossa durante il servizio spirituale, come se si cingesse con una nuova veste per coprire qualcosa di brutto (il sacerdote la indossa anche al momento che precede il sacramento della confessione nella liturgia siro-ortodossa ). In questo contesto, il perdono coincide con l’effusione della grazia; la fascia e lo scialle nascondono il passato, guariscono e consolano - nel presente - grazie al servizio divino e all’appartenenza alla dimora divina. Così possiamo capire meglio come superare il tempo e la storia - segnati dalla bruttezza dei peccati e dal risentimento personale - perché tornino, ornati della grazia, in un presente purificatore, il cui titolo è ‘la misericordia’ o ‘la giustizia’, intesa come amore, così come ampiamente illustrato da Isacco di Ninive[6]. L’accoglienza del figliol prodigo da parte del padre, il ritrovamento della pecora smarrita e il perdono della donna adultera, imprimono un segno sulla terra in vista di una nuova creazione e una rinascita che non bisogna indugiare a intraprendere cinti di bellezza.
Per quanto concerne la dottrina, il perdono è connesso, organicamente e dialetticamente, al concetto di errore, di colpa e di inimicizia. Esso si attiva solo dopo una richiesta, accompagnata dal pentimento sincero, sollevata da un senso di necessità che il colpevole avverte, come la necessità che il malato ha della medicina. In questo contesto, non possiamo che sottolineare la centralità della condizione umana che, con il ritorno alla coscienza, ossia al sentimento naturale innato nell’uomo, consente a tutti noi di distinguere il bene dal male, la superiorità della pace rispetto alla guerra, della vita rispetto alla morte.
Per questa ragione, l’opinione dei nostri padri siriaci in generale sul peccato come una malattia, una ferita eloquente, che è pervenuta con Gesù guaritore, il medico, la possibilità di ungerlo con l’olio, di spalmarlo (coprirlo) e curarlo.[7] Non c'è paura né vergogna a chiedere - dopo aver chiamato il medico, il quale è sempre a nostra disposizione ed è risorto dalla tomba lasciando cadere il sudario – un perdono vero per ogni fedele che crede nella risurrezione.[8]
Sempre per questo motivo, l’ebreo collega, nel caso del colpevole, il perdono di Dio alla richiesta di esso (del perdono), come avviene nei riguardi di colui che egli ha offeso. "Gli errori dell’uomo nei confronti di Dio gli sono perdonati nel giorno del grande perdono lo Yom Kippur" יום הכיפורים, ma gli errori dell’uomo verso l'altro non sono perdonati in questo giorno, a meno che ciò non sia stato fissato in precedenza per la soddisfazione di chi è stato offeso”. Quest'ultimo è tenuto a essere indulgente e ad accettarla. Se la richiesta è respinta tre volte, l'aggressore si libera dall’offeso rispondendo che la pallina torna al campo da gioco. In cambio di questa spiritualità estremamente calcolatrice, si schiudono le gemme del perdono che effondono la compassione, per perdonare settanta volte sette, spalancando la porta davanti all’incontro e scrivendo una nuova pagina. Questo è lo stupore che produce il perdono cristiano quando il nemico si è trasformato in amico, l’aggressore in compagno di viaggio, e tutti sono figli del Padre celeste.
P. Yuhanna ‘Aqiqi
[1] L’indulgenza è superiore al perdono e la misericordia è superiore a entrambi. L’indulgenza è più eloquente del perdono perché l’uomo potrebbe perdonare ma non essere indulgente. Il perdono consiste nel tralasciare la punizione della colpa, mentre l’indulgenza vuol dire tralasciare il rimprovero e il biasimo del peccato. Il perdono, dal punto di vista linguistico, vuol dire superare il peccato e nasconderlo, deriva dalla radice gh-f-r che significa ‘coprire’, ‘nascondere’. Dice il Corano: “Se perdonerete, sarete indulgenti e condonerete, Dio sarà indulgente e clemente … ”, (Sura del reciproco inganno, v. 14)
[2] “ 4 … La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, 5 non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, 6 non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. 7 Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta ...” [1Cor. 13, 4-7]. Allo stesso modo, apprendiamo dalla Mishnah: C’è un po’ di orgoglio e di volgarità nel nostro rifiuto di dare il perdono". (Mishnah, Baba Qama 8: 7).
[3] “Tra gli insegnamenti di Rabbi Yohanan e Rabbi Shimon Ben Ahossadaq: “Ogni allievo non deve nutrire sentimenti di vendetta né di invidia, altrimenti, come il serpente, egli non sarà degno di essere allievo dei saggi … (Yoma 22 b 6 l23).
[4] Hanna Arendt, The Human Condition, 1958; University of Chicago Press; seconda edizione, 1998.
[5] Vladimir Jankélévitch, Le pardon, éditions Aubier-Montaigne, 1967, 1993.
[6] Dice P. Isacco nel suo Discorso n. 58: “Stendi il tuo mantello sul peccatore e nascondilo. Se sei incapace di sopportare i suoi peccati e di accettare il giudizio in suo favore, accompagnati a lui, sii umile e sottomesso, fai in modo di non farlo vergognare.” Prima raccolta delle pratiche ascetiche.
[7] . "L'uomo che è stato ferito sul campo di battaglia (dice il saggio persiano Avrahàt) non si vergogna di affidarsi nelle mani di un medico saggio ... così chi è stato ferito dalla freccia del male, non deve vergognarsi di riconoscere i propri peccati e allontanarsi da essi chiedendo la medicina del pentimento" (Démonstrations, 7, 3); Isacco di Ninive il siriaco, adopera, insieme ad altri Padri della Chiesa, la metafora della guarigione dalla malattia, che richiede un vero medico, cfr. Prima Raccolta, artt. V e VIII, solo per citarne alcuni.
[8] “Nessuno piange per i propri errori il giorno dopo, ma il perdono risorge dalla tomba”, San Giovanni Crisostomo.
. "L'uomo che è stato ferito sul campo di battaglia (dice il saggio persiano Avrahàt) non si vergogna di affidarsi nelle mani di un medico saggio ... così chi è stato ferito dalla freccia del male, non deve vergognarsi di riconoscere i propri peccati e allontanarsi da essi chiedendo la medicina del pentimento" (Démonstrations, 7, 3); Isacco di Ninive il siriaco, adopera, insieme ad altri Padri della Chiesa, la metafora della guarigione dalla malattia, che richiede un vero medico, cfr. Prima Raccolta, artt. V e VIII, solo per citarne alcuni.
“Nessuno piange per i propri errori il giorno dopo, ma il perdono risorge dalla tomba”, San Giovanni Crisostomo.
Le sfumature del perdono nei gradi del responso giuridico (fatwa) e della fede.
Una lettura del testo islamico
Suàd al-Hakìm
Ho chiesto a un giovane poco più che ventenne: “Cosa fai se qualcuno ti fa del male?” Egli ha risposto immediatamente: “Lo uccido”. Alla sua risposta mi sono spaventata e mi sono resa conto che la sua violenza era un turbinio di rabbia contro qualcuno senza fisionomia e senza identità. Forse era una rabbia vaga che appartiene alla condizione umana in generale. Gli ho rivolto allora delle domande sulla sua esperienza di vita e la sua esperienza personale, chiedendogli in tono polemico: “Se la persona che ti ha fatto del male è tuo padre o tua madre che cosa fai?” Ha risposto: “Sopporto l’offesa e non ricambio con la stessa moneta”. Gli ho detto: “Quando sopporti l’offesa di una persona che ami o che rispetti (padre, madre), il tuo cuore rimane integro verso di lei?” Egli ha risposto: “No, provo rabbia e collera, ma senza odio o rancore”. E io: “Come riesci a scacciare la rabbia e a cancellarla?”. “Se chiede scusa o cambia il suo comportamento nei miei confronti, volto pagina e ricomincio da capo”.
Ho chiesto a un amico, che si è incanutito dietro i libri di filosofia e le esperienze umane: “Cosa fai se qualcuno ti fa del male?” ed egli ha risposto come se stesse leggendo su di un libro aperto - solo in seguito ho saputo che mi stava raccontando un pezzo della sua esperienza di vita vissuta - “Se qualcuno mi ferisce, non lo punisco né lo ferisco a mia volta, né nutro del rancore nei suoi confronti per quanto importante possa essere la sua offesa, ma se, per le circostanze della vita, avesse bisognoso di un servizio da parte mia e mi cercasse affinché lo aiutassi, non sarei disposto ad aiutarlo, anche se questo fosse in mio potere”. In altre parole, la nobile natura di questo mio amico lo induce al perdono nei confronti di coloro che gli hanno fatto torto e a superare l’offesa o il danno, ma non è disposto a trattare bene chi gli ha fatto del male.
Mi sono chiesta, osservando la storia della mia vita, che cosa farei io se qualcuno mi offendesse. Mi comporterei spontaneamente secondo i miei sentimenti o mi rivolgerei al testo islamico affinché mi facesse da guida nelle relazioni umane, prendendo a sostegno un fondamento celeste? Ho riflettuto sui momenti cruciali della mia vita, e mi sono chiesta: “Ho seguito sempre lo stesso comportamento e un unico modello al momento della reazione o della risposta all’offesa dell’altro oppure il mio comportamento è stato diverso a seconda dell’umore e della circostanza o della fase della mia vita, a seconda del mio amore nei confronti di costui o del ruolo che ha avuto nelle mie amicizie. Ho ripensato a tutte le volte che sono stata debole e incapace di perdonare l’offesa di una persona e mi sono proposta di troncare con lui sforzandomi di farlo in modo gentile e non rozzo. Così come ho osservato le volte in cui ho perdonato le offese, laddove la maggior parte delle persone avrebbe rovesciato sull’altro i propri rimproveri. Prima di vantarmi e di meravigliarmi per la mia capacità di perdonare, mi sono chiesta e ho indagato a fondo se questo mio perdono fosse a vantaggio dell’altro, per dargli cioè una nuova opportunità, oppure a vantaggio mio per proteggere l’integrità della mia immagine, o per la purezza del mio cuore e la soddisfazione del Signore, oppure per una ragione che è nascosta in fondo alla mia coscienza e che non riesco a palesare neppure a me stessa?
Ho risposto a queste domande e a queste riflessioni nella seguente maniera: “Il perdono è una questione umanitaria intricata e complessa, non dico contorta, anche se le persone non sono uguali nel loro comportamento quando sono colpiti da offese e ingiurie; ma, oltre a questo, la stessa persona non segue un unico approccio per affrontare l’offesa e il torto dell’altro ... Dico anche che questa questione umanitaria (il perdono) rimane povera se praticata nel singolo quadro esperienziale e rimane un’espressione delle reazioni della coscienza verso gli stimoli dell’esistenza. Il processo del perdono presso l’uomo si arricchisce quando si apre alle esperienze di tutta la comunità umana e alla saggezza morale costruita sul testo religioso.
Desidererei che l’incontro di oggi avesse l’efficacia di dimostrare che l’altro – parente o estraneo, vicino o lontano che sia - è l’esempio più vicino della riconciliazione con sé stesso, con la vita, con l’universo e con Dio ... e che il perdono dell’altro - dal punto di vista umano e religioso – fa sentire bene con se stesso l’uomo e lo qualifica per il perdono divino. Dividerò la mia presentazione in quattro rapidi paragrafi, sperando di dipingere un quadro chiaro della morale del perdono e dell’indulgenza reciproca, dal punto di vista islamico:
1 – Approccio alla terminologia e ai concetti.
L’Islam esorta l’uomo - nel Corano e nella Sunna – ad essere un compagno fedele, magnanimo e tollerante nei rapporti con l’altro; buono di cuore, affabile, accogliente, disponibile verso gli altri, buono con il vicinato e con tutti gli ospiti. Allo stesso tempo, gli ha ordinato di prendere in considerazione le condizioni di chi lo offende e si comporta male con lui, e di lavorare alla comprensione dell’altro, di esaminare le sue scuse per un massimo di settanta. Numerosi testi chiedono di purificare l’atmosfera umana dalle controversie e dai conflitti e indica un sistema di valori in questo campo; come il superamento dell’offesa e del torto, la clemenza, il perdono e l’indulgenza.
Questo sistema di valori possiede dei gradi (alcuni dei quali sono superiori ad altri), di modo che ognuno prenda da essi ciò che si accorda con l’indole che possiede in quel momento e poi si sforzi di elevarsi al livello superiore.
Cominciamo con l’illustrazione dei concetti (quattro) desunti dalle definizioni etimologiche e dalle raccolte esegetiche del nobile Corano:
• superare (tajàwuz) l’offesa, [il verbo] è inteso – dal punto di vista linguistico - nel senso di ‘attraversare la strada’, ‘seguire un percorso’ e diciamo: ha attraversato la strada cioè l’ha percorsa, l’ha tagliata e se l’è lasciata alle spalle.[1]
Quindi, il superamento da parte dell’uomo dell’offesa ricevuta dal fratello si manifesta nel non troncare la relazione con lui al momento dell’offesa, ma di superarla e superare con essa i sentimenti di rancore, di rabbia e di odio ... ripristinando un buon rapporto con lui, considerando l’offesa come appartenente a un passato dimenticato.
Questo significato è contemplato [nel Corano]: “Costoro sono quelli dai quali accetteremo quel che di meglio hanno operato, e passeremo sopra le loro cattive azioni” [Sura al-Ahqāf, v. 16-17]. Allo stesso modo, il nobile hadìth allude a questo significato, quando riporta le parole dell’inviato di Dio: “Dio ha perdonato alla mia comunità l’errore, la dimenticanza e quanto di odioso hanno commesso”, cioè non c’è più peccato per essi riguardo a ciò.
• Quanto alla clemenza (safh) ci sono due cose da dire: primo, perdonare significa condonare l’offesa e tralasciare il biasimo, perché la parola ‘clemenza’ indica – dal punto di vista etimologico arabo - il ‘lato’, e il ‘lato’ dell’uomo è il suo volto. Di conseguenza, la clemenza, secondo un’immagine metaforica, vuol dire stornare il volto dall’offesa.[2] Secondo, la clemenza deriva anche dall’espressione: ‘ho voltato pagina’ cioè ho superato quel che c’è in essa,[3] ho voltato la pagina del torto e ho sgombrato la mente dall’avversione per aprire una nuova pagina con l’autore dell’offesa, simile a quel che c’era nella fase iniziale della relazione.[4]
La ‘bella clemenza’ – di cui si legge nel Corano - [5] è il perdono mite, senza rimprovero né tristezza né rabbia.
• Il concetto di ‘perdono’ (ghufràn) si fonda, linguisticamente, sul verbo gh-f-r col significato di ‘nascondere’: ogni cosa che si nasconde si copre, da qui ‘coprire’, ad es., la canizie con la tintura. Allàh perdona i peccati, cioè li nasconde,[6] Dio è Ghaffàr (‘il molto clemente’), Ghàfir (‘perdonatore’) e Ghafùr (‘indulgente’); Egli è ‘Colui che rimette i peccati’ e ‘il migliore dei perdonatori’ nel senso che è colui che copre le colpe dei Suoi servi.
Il nobile Corano richiama l’attenzione sul fatto che il perdono non è affatto semplice, anzi è possibile soltanto per la gente fermamente risoluta, l’Onnipotente dice: “Chi sarà paziente e perdonerà, sappia che questa è la ferma condotta da seguire nelle imprese” [Sura della Consultazione, v. 43]; “E quando si adirano, perdonano” [Sura della Consultazione, v. 37].
Questa morale appare in sintonia con la debolezza umana; ma è anche di sprone alla volontà a lasciar cadere il velo su colui che offende e sulla sua offesa, insieme all’amore, alla misericordia e alla grazia ... soprattutto se colui che perdona è in grado di nuocere al colpevole e di danneggiarlo. L’imàm Razi arriva ad affermare che coprire il brutto è da considerarsi un perdono, se proviene da chi è in grado di punire l’altro; mentre se proviene da un debole, oppresso e incapace di nuocere, non è da considerarsi ‘perdono’,[7] anzi forse è da considerare un segno di umiliazione e di mortificazione.
• La parola ‘indulgenza’ (‘afū) indica nella nostra lingua l’atto di ‘cancellare’ e di ‘annullare’. Essa deriva dall’espressione “il vento ha cancellato (‘afat) le tracce”, quando le elimina, le cancella e le annulla.
Pertanto, la morale dell’indulgenza nei confronti dell’offesa di un parente si manifesta nella cancellazione di ogni traccia dall’anima e dall’esistenza esterna, come se non fosse mai avvenuta. Forse è per questo che quando preghiamo chiediamo a Dio Altissimo non solo di perdonare i nostri peccati, ma di essere anche indulgente con noi. L’inviato di Dio disse ad ‘Aisha per insegnarle a chiedere perdono a Dio: “Dì [nella ricorrenza della ‘notte del destino’]: Mio Dio, Tu che sei l’indulgente, il misericordioso e ami l’indulgenza, abbi pietà di me!”.[8] Ha detto, inoltre: “Davvero iddio è indulgente e ama l’indulgenza”.[9]
2 – Il perdono è generato dall’amore e dalla misericordia.
Il nome divino Ghafùr nel Corano - in diverse formulazioni – ricorre 90 volte o poco più e questa è la prova che Dio Altissimo ama perdonare il colpevole e il ribelle … Nell’Islam deduciamo l’origine del perdono dall’amore e dalla misericordia, perché il nobile Corano spesso riunisce tutte e tre queste parole: perdono, misericordia e compassione e l’Altissimo ci ha detto di sé che è ‘il Perdonatore Misericordioso’ [Sura al-Aḥqāf, v. 8], ‘il Perdonatore Amorevole’ [Sura Le Torri, v. 14], ‘il Misericordioso Amorevole’ [Sura di Hùd, v. 90] … Perciò troviamo che il perdono si può paragonare all’amore, che è la benevolenza consolidata, e alla misericordia, che è un nome inclusivo in cui rientrano i concetti di gentilezza, dolcezza, rimozione dell’offesa, benevolenza, aiuto e carità[10] ... Dio Onnipotente è amorevole e benevolo verso le Sue creature e misericordioso nei loro confronti … La moralità umana si delinea sulla base dei seguenti concetti, allo scopo di generare l’amore e la misericordia, e cioè il perdono e l’indulgenza reciproca.
Da qui deduciamo che l’uomo è pronto a perdonare quando nel suo cuore c’è amore e compassione per il genere umano in genere … Non conta - moralmente - il perdono basato sull’amore emotivo, perché è molto facile perdonare coloro che amiamo – l’amore, per sua natura, è cieco e sordo - ma conta l’amore umano universale, che guarda a tutti i peccatori con la stessa tenerezza … Tutti, davanti all’effusione del perdono, siamo uguali.
Quanto alla misericordia, essa è la qualità dei forti, di coloro che hanno elevate aspirazioni. Sono numerosi i versetti coranici che ci indicano che la misericordia cade dall’alto verso il basso, è il movimento della propensione e dell’indulgenza del forte verso il debole
Abbiamo già affermato che l’indulgenza appartiene propriamente a coloro che sono dotati di ferma volontà e hanno elevate aspirazioni. Il maestro sufi Muhyi al-Din Ibn ‘Arabi sottolineava come il perdono è il metro con cui si misura l’elevatezza dell’aspirazione della persona.
E riferisce: “Un consigliere di al-Zàhir, sultano della città di Aleppo e figlio di Saladino l’ayyubide, in una sola seduta espose al sultano ben centodiciotto richieste, ed egli le soddisfece tutte tranne una che proveniva da una persona della cerchia del sovrano, ma che lo aveva tradito calunniando il suo regno. Al-Zàhir si giustificò riferendo a Ibn ‘Arabi che la persona suddetta aveva commesso una colpa tale che nessun sovrano avrebbe potuto tollerare. Gli rispose testualmente Ibn ‘Arabi: “O tale, io immaginavo che tu avessi la stessa aspirazione dei sovrani, essendo tu un sultano. Quello che so è che nel mondo non esiste una colpa che possa tenere testa alla mia indulgenza, e io sono un tuo semplice suddito, come può allora esserci una colpa che possa tenere testa alla tua indulgenza, senza subire una punizione da parte di Dio? Tu sei al di sotto di me quanto a aspirazione”. Il sovrano si vergognò e perdonò l’uomo.
Dunque l’Islam cerca di costruire un essere umano che apprezzi il perdono illimitato e incondizionato.
3 - Il perdono è un valore assoluto?
Arriviamo a una domanda che sorge spontanea: il perdono – nell’Islam - è un valore assoluto, valido per tutti i tempi, i luoghi e le persone? E ancora, colui che concede il perdono, la remissione e l’indulgenza è sempre e in ogni situazione migliore di colui che commette la colpa ed è a favore di una giusta punizione?
Dopo aver studiato decine di passi del Sacro Corano, della Sunna profetica e della biografia di Muhammad ho trovato che il perdono non è un valore assoluto nell’Islam; è un valore importante che però rientra nell’ambito dei valori che devono essere governati dalla saggezza.
La saggezza è una benedizione divina per l’uomo; essa consente di adottare la misura appropriata a ogni situazione (esistenziale e umana). Se riflettiamo sui passi sacri che abbiamo indicato sopra, troviamo che il perdono, se profuso in modo totale, come fanno i raggi del sole nell’universo, può forse essere utile a un uomo, ma nuocere ad altri, e forse può causare perfino disastri umanitari; noi perdoniamo un uomo che potrebbe perdurare nel suo errore e rovinare il suo futuro e la sua vita … La questione richiede una riflessione ponderata su quando, come, perché e dove perdonare, nonché su altri problemi e interrogativi. Questo ci conduce all’ultimo punto.
4- La filosofia del perdono nell’Islam.
Il perdono è un processo tra due parti (colui che perdona e colui che offende), ciascuna delle quali gioca, in questo processo, un ruolo diverso. La questione importante è che le parti agiscono e si influenzano reciprocamente, secondo la filosofia del perdono.
Cominciamo con la prima parte che si identifica con colui che perdona. Troviamo che l’Islam – come abbiamo visto nel secondo paragrafo – tende a costruire un essere morale che sia predisposto – psicologicamente, mentalmente e spiritualmente – a perdonare illimitatamente e incondizionatamente. Ciò implica che occorre collegare il perdono alla saggezza (come abbiamo spiegato nel terzo paragrafo), ma non è solo la persona che perdona che può fare ciò.
Passiamo alla seconda parte costituita dal colpevole. L’Islam prevede dei gradi per lui, dopo che ha commesso l’offesa, come, ad esempio, chiedere scusa, mostrare pentimento, sforzarsi di mitigare il cuore di colui che ha ricevuto l’offesa (concretamente o verbalmente), lavorare con impegno per sanare ciò che ha guastato.
Queste sagge azioni non sono obbligatorie e dipendono dall’adesione dell’aggressore alla sua essenza umana più elevata. In quel momento, come per magia, il cuore ferito sarà sgombrato dalla rabbia, dall’oppressione, dalla prevaricazione e da un senso permanente di umiliazione. Quindi, come prima conseguenza, l’Islam ha trovato una via d’uscita per il peccatore, al livello dei rapporti umani.
Come seconda conseguenza, deduciamo che lo stato e il comportamento dell’aggressore - prima e dopo l’offesa – sono due fattori fondamentali per collegare l’atto del perdono alla saggezza. In altre parole, l’essere morale è predisposto al perdono, ma in lui la decisione di punire e quella di perdonare si equivalgono - a livello emotivo e psicologico ... I fattori che lo spingono verso la punizione o verso il perdono sono fattori che dipendono dall’essenza dell’aggressore e dal suo comportamento e non c’è relazione con la capacità di perdonare di colui che è stato offeso, perché egli è predisposto e in grado di farlo. E arriviamo al livello in cui si trova l’essere morale, filantropo e indulgente con tutti gli uomini, pronto a compiere qualsiasi azione che possa riconciliarlo con l’aggressore in modo da prenderlo per mano, allo scopo di creare una società fondata sulla sicurezza e le relazioni pacifiche. Egli si interroga sulle opzioni che l’Islam pone davanti alla sua saggezza.
Ora gli diciamo: se hai svuotato la tua anima e hai illuminato i tuoi pensieri con l’amore verso l’umanità e la misericordia universale e sei attirato dall’idea di presentare il lato migliore all’aggressore, l’Islam ti offre tre opzioni che puoi scegliere – secondo saggezza – per riconciliarti con l’aggressore e riappacificarti con lui, perché le persone non sono uguali nelle loro predisposizioni a ricevere l’illuminazione morale.
La prima opzione è la pena del taglione ... L’uomo che è fondamentalmente pieno di amore e di misericordia nei confronti del suo gruppo, quando sceglie la pena del taglione non la sceglie per soddisfare la sua sete di vendetta, ma perché crede che essa sia la via giusta per l’offensore e la più utile per lui rispetto al perdono. L’uomo che, invece, non è arrivato alla perfezione morale e spirituale nel processo del perdono, punisce l’aggressore per soddisfare la sua sete di vendetta. L’Islam ha concesso a colui che è stato offeso e ha ricevuto un torto di ricorrere alla pena del taglione, ma ha imposto due condizioni, perché il taglione nell’Islam ha dimensioni e radici educative.
La prima condizione, è che [il taglione] propaghi la vita nel cuore di chi punisce, di conseguenza non deve esserci vendetta né distruzione. Dice l’Altissimo: “La legge del taglione è garanzia di vita …” [Sura della vacca, v. 179]. La seconda condizione è che la punizione sia giusta, commisurata alla colpa, non deve esserci ingiustizia né arbitrio.
Dice l’Altissimo: “La ricompensa del male sia un male a esso equivalente” [Sura della consultazione, v. 40] e dice ancora: “… chi vi aggredisce aggreditelo come ha aggredito voi” [Sura della vacca, v. 194] … Uno dei saggi sapienti - Ibn Arabi – ha evidenziato come Dio Onnipotente ha avvertito che il taglione è anch’esso un’azione malvagia, dal momento che lo ha chiamato ‘male equivalente’.
La seconda opzione è il perdono … Qui si considera la persona amorevole e misericordiosa che è disposta a perdonare nei quattro modi che abbiamo esaminato nel secondo paragrafo vale, a dire: il condono dell’offesa, la clemenza, il perdono e, infine, l’indulgenza. Quindi deve gestire - saggiamente - una di queste forme che servono a riconciliarsi con l’aggressore per riportarlo entro il cerchio della luce, dell’amore e della compassione.
È superfluo ricordare che colui che perdona – che è amorevole e misericordioso - è decisamente colui che opera ‘il bel perdono’, non ricorda all’aggressore la sua offesa, non glielo rinfaccia né si inorgoglisce, ma continua ad avere rapporti con lui attraverso l’atto del perdono, e desidera che il perdono sia un momento di spiritualità e un momento d’incontro tra uomo e uomo.
Se chi ha ricevuto il torto ha scelto di perdonare ed è pronto a farlo – psicologicamente e spiritualmente – e lo fa anche in modo razionale, sulla base del fatto che il testo religioso invita al perdono, lo auspica e conferisce al perdonatore la ricompensa relativa al tipo di opera svolto, il processo del perdono sarà sempre suscettibile di ripensamento, se non è accompagnato da un vero lavoro per superare i propri conflitti interiori e purificare tutto il proprio spirito.
La terza opzione è la carità … L’Islam prospetta un terzo percorso che è un gradino più in alto rispetto al perdono e che è la via della carità nei confronti di ha operato il male.
Si tratta di un percorso difficile, duro, se all’interno dell’uomo permane un briciolo d’orgoglio, di vanità e di dominio dell’ego e di autocommiserazione per lo shock dell’offesa ricevuta. Nonostante ciò, questo percorso non è stato trascurato, né è diventato un deserto privo di viandanti, visto che il testo religioso ha invitato alla carità e ha incitato ad essa, e [il Corano] non incita all’impossibile, così come le impronte di coloro che hanno aspirazioni elevate e grandi energie spirituali, tra i credenti di tutte le religioni, continuano ad essere fresche, trasmettendo il loro messaggio alle generazioni seguenti.
Questa è la terza via, la via della carità, in grado di generare l’amore e la compassione nel cuore della persona colpevole che riceve la carità, perché i cuori sono plasmati sull’amore dalla carità che ricevono.[11] Quando l’amore e la compassione sono generati nel cuore del peccatore, ciò si riflette verso colui che lo ha beneficato con l’amore e la compassione, i cuori si incontrano ed entrano in contatto con l’essenza dell’amore e della compassione. Dice l’Altissimo: “Perché non sono cosa pari il bene e il male, ma tu respingi questo con qualcosa di migliore ed ecco che colui che ti è nemico ti sarà amico affettuoso” [Sura dei versetti chiaramenti esposti, v. 34].
Con l’immaginazione si può rappresentare il movimento dell’amore e della compassione come la figura di un cerchio, il primo semicerchio è ‘l’arco del perdono’ che si genera dalla presenza dell’amore e della compassione nel cuore del perdonatore. Il secondo semicerchio è "l’arco della carità", ed è quello che si genera dall’amore e dalla compassione nel cuore dell’aggressore. Se spostiamo il secondo semicerchio e lo facciamo ruotare fino a farlo combaciare con il primo, il cerchio dell’amore e della compassione si completa.
Concludo dicendo che viviamo in un tempo in cui sono stati innalzati muri tra i vicini e sono aumentate le barriere con coloro che sono lontani. Ogni uomo pensa di poter fare a meno di chi lo circonda grazie agli strumenti di socializzazione che possiede … la solitudine o l’isolamento sociale non è più una spada che pende sull’uomo che si è comportato grossolanamente o dal cuore indurito … “L’errore dell’altro” è diventato fatale, in alcuni casi, così come il perdono è diventato un ornamento di una distinta élite spirituale ... Questa rappresentazione della realtà non vuole avere il gusto amaro della disperazione né deriva da un sentimento di biasimo del tempo presente, ma spero con essa di spronare coloro che sono dotati di intelletto e di buona volontà a produrre nuovi stili e nuove concezioni raccordino la vita, il testo religioso, le esigenze degli uomini e i sogni dei giovani.
[1] Cfr. Lisān al-‘arab e Taj al-‘arūs, alla voce j-w-z.
[2] Tafsīr al-Baḥr al-Muḥīṭ, Sura della vacca, v. 6. Cfr. anche Tafsīr Ibn ‘Abd al-salàm, vol. 5, p. 464.
[3] al-Baḥr al-Muḥīṭ, Sura della vacca, v. 6.
[4] Cfr. Tafsīr al-Ša‘rāwī, Sura della vacca, v. 109; Sura della mensa, v. 13.
[5] Cor. XV, 45 [n. d. T.]
[6] Lisān al-‘arab e Tāj al-‘arūs.
[7] Al-Rāzī, Mafātīḥ al-Ġayb, 25 / 168 (Sura dei partiti).
[8] Al-Tirmidhi, al-Sunan, 5 / 534.
[9] Al-Hakìm al-Nisaburi, al-Mustadrak ‘alā al-Sahihayn, hadìth n. 8224.
[10] Cfr. Tafsìr Ibn ‘Ashùr, Sura aprente, v. 3.
[11] Brano di un ḥadīṯ trasmesso da al-Qidà‘i, nel suo Musnad, I, 350.
[1] Brano di un ḥadīṯ trasmesso da al-Qidà‘i, nel suo Musnad, I, 350.